«Ciò che è noto racchiude in sé meno terrore di ciò che è soltanto sussurrato e fantasticato». Malgrado le parole che Sir Arthur Conan Doyle fa pronunciare a Sherlock Holmes in una delle sue più celebri indagini, Il mastino dei Baskerville (1902), il cupo lamento della bestia che riempie le notti della brughiera di Dartmoor, tra vegetazione rada e paludi, sabbie mobili, nebbia e ombre sinistre non potrebbe racchiudere meglio l’essenza minacciosa di quella parte della contea del Devon in cui è ambientato il romanzo. E anche se alla fine il detective di Baker Street, sfidando le leggende locali, riuscirà a dimostrare come non esista alcun cane demoniaco pronto ad aggredire gli eredi maschi della casata del luogo, la sensazione che la natura inospitale della zona esprimesse al meglio le proprie intenzioni malevole proprio attraverso quel lancinante latrato, farà a lungo fatica ad abbandonare i lettori.

Del resto, l’intreccio tra le storie che tentano di scandagliare ansie e paure, che dalla dimensione individuale possono divenire collettive, ricorrendo al lavoro di bizzarri detective per esorcizzare tali timori o, al contrario, renderli palesi, e il mistero insito nella natura, nei suoi aspetti temibili e selvaggi, come nel suo profilo di indomita imprevedibilità, è ben più consistente di quanto si possa immaginare a prima vista.

BASTEREBBE CITARE due classici cinematografici, a loro modo ascrivibili al genere, come Gli Uccelli di Alfred Hitchcock (1963) e Il promontorio della paura (Cape Fear), nelle sue due versioni, l’originale diretto da J. Lee Thompson (1962) e il remake di Martin Scorsese (1993), per rendersi conto di come lo scenario nel quale vanno in scena le storie, non contribuisca solo a renderle indimenticabili, ma sia parte essenziale della loro intima scansione narrativa. La Baia di Bodega, 100 km a nord di San Francisco, dove fu girato l’assalto di migliaia di volatili divenuti improvvisamente aggressivi e ostili nei confronti dell’uomo, come le località costiere del Nord della California, della Florida e della zona di Savannah, in Georgia, che servirono da location per i film interpretati rispettivamente da Robert Mitchum e Gregory Peck, e da Robert De Niro e Nick Nolte.

Certo, si dirà, lo scenario naturale, nei casi citati come in molte altre opere sia cinematografiche che narrative, o tratte le une dalle altre, serve spesso a riflettere soprattutto il volto fragile o terribile degli esseri umani. Lo spazio della wilderness diviene sovente uno schermo su cui proiettare l’immagine selvaggia di uomini che si trasformano in cacciatori di altri uomini, considerando alla stregua di una preda chi appartiene alla propria stessa specie. In ogni caso, a quel punto, smentendo la sicumera da pioniere del positivismo scientifico di uno dei primi detective letterari, si dovrà concludere che è proprio quanto è in apparenza «noto», come lo spazio naturale in cui ci muoviamo, ad alimentare le nostre inquietudini ben più di leggende e fantasie che qualcuno sussurra nell’ombra. E c’è da credere che scorrendo qualche recente titolo raccolto sugli scaffali alla voce noir o poliziesco, lo stesso Sherlock Holmes rivedrebbe almeno in parte la sua analisi.

Come rivela fin dal titolo il romanzo che negli Stati Uniti è stato giudicato tra i migliori gialli dell’anno, Nel silenzio dei boschi (Neri Pozza, pp. 286, euro 19), sono le foreste, ed in particolare quelle degli Appalachi settentrionali, a definire il luogo del crimine nel quale la scrittrice e poetessa della Pennsylvania Kimi Cunningham Grant fa muovere i propri personaggi. Un reduce dell’Afghanistan e sua figlia di appena otto anni vivono in una casetta di legno in mezzo al bosco, senza luce elettrica né contatti con il mondo esterno. A far compagnia alla piccola, qualche libro sugli animali e le poesie di Emily Dickinson e Walt Whitman che lei recita a memoria. Quello che assomiglia a un esilio volontario è però anche una garanzia, un tentativo di proteggersi da minacce che evocano il passato militare dell’uomo e le mire della famiglia della madre della bambina, scomparsa poco dopo la sua nascita. Le montagne e i boschi tengono i due al riparo, ma, quando una presenza ostile si manifesterà intorno a loro, quello stesso scenario idilliaco rischierà di trasformarsi in una trappola letale.

Le montagne delle Highlands, come le isole Ebridi, rappresentano invece altrettanti luoghi d’elezione per lo scrittore di Glasgow, e da tempo trasferitosi in Francia, Peter May, autore della Trilogia dell’isola di Lewis (Einaudi) che ha fatto del duro ambiente naturale del nord della Scozia lo scenario per una serie di noir che indagano nei segreti conservati dai luoghi come dagli individui. Ne Il rumore del ghiaccio (Einaudi, pp. 306, euro 18), il detective Cameron Brodie, arrivato da Glasgow, dovrà far luce sul ritrovamento del corpo di un noto giornalista d’inchiesta in un ghiacciaio delle Highlands. Mentre cerca di capire quale delle molte piste scomode che il morto inseguiva possa essere stata alla base della sua fine violenta, Brodie resta bloccato in un villaggio, isolato per giorni a causa di una tempesta di neve, letteralmente immerso in una realtà nella quale, scoprirà, vigono talvolta leggi non scritte ma dalle conseguenze inesorabili.

ACCANTO ALLA DIMENSIONE politica e sociale, per cui tanto si sono spesi autori come Henning Mankell e Stieg Larsson, e prima di loro la coppia formata da Maj Sjöwall e Per Wahlöö, il noir scandinavo ha indubbiamente imposto un nuovo rilievo al rapporto tra racconto criminale e spazi naturali, privilegiando, come è ovvio che sia, i contesti caratterizzati dal gelo, la neve, spazi isolati e deserti. Ma anche, e questo è forse meno evidente, l’incidenza di un mondo rurale, dove il crimine incide quanto il ciclo delle stagioni, nel quadro di un canone narrativo sviluppatosi in gran parte all’interno degli spazi urbani, se non di quelli delle metropoli.

Ragnar Jónasson, scrittore e giornalista di Reykjavík cui si deve la fortunata serie dei Misteri d’Islanda (Marsilio), con Il sogno di Unnur (Marsilio, pp. 222, euro 18) porta a compimento la trilogia dedicata alle indagini di Hulda Hermannsdóttir, ispettore della polizia della capitale islandese, che in questo caso deve vedersela con alcuni omicidi compiuti in una fattoria della parte orientale dell’isola. Un luogo spesso isolato a causa delle intense nevicate invernali e dove di recente si sono interrotte anche le linee telefoniche e la corrente elettrica: «Un posto non adatto agli esseri umani, non in quel periodo dell’anno», come ammette uno personaggi della storia.

Un altro islandese, Snæbjörn Arngrímsson, dopo aver pubblicato una serie di gialli dedicati ai più giovani, ha scelto di rivolgersi ad un pubblico più maturo con un noir tutt’altro che banale, Un castello di bugie (Carbonio, pp. 350, euro 21). Nel libro, le atmosfere e i misteri sanguinosi delle saghe islandesi, sulle cui tracce si muovono la scrittrice Júlía e suo marito Gíó, che allo scopo hanno raggiunto l’isola di Geirshólmi, a pochi chilometri dalla costa e dal noto «Fiordo della balena», finiranno per avere il sopravvento sulla coppia. Dopo una lite durante una gita in gommone, dell’uomo si perderà ogni traccia, eppure la sua presenza continuerà in qualche modo a manifestarsi.

INFINE, INEVITABILMENTE per una stagione dell’umanità segnata dalle conseguenze devastanti del cambiamento climatico anche senza arrivare a parlare di Antropocene, anche il noir non può esimersi dalle ibridazioni concernenti gli assetti del Pianeta, come già accaduto, e da tempo per la fantascienza con la cosiddetta Climate fiction.

Tra le prove più convincenti di questa tendenza si può annoverare Cane 51 (e/o, pp. 228, euro 18) dello scrittore e drammaturgo francese Laurent Gaudé, già vincitore del Goncourt. In un mondo devastato dall’inquinamento e dallo strapotere delle multinazionali, una delle quali ha «comprato» l’intera Grecia per trasformarla in una discarica, l’ispettore di polizia Zem Sparak opera nella zona 3 di Magnapoli, scossa dalle piogge acide e da cataclismi atmosferici, mentre le altre due zone in cui è divisa la metropoli-mondo in cui vive sono protette da una cupola di vetro. Con un passato nei movimenti libertari, a Zem non resta così che rifugiarsi nelle visioni che procura l’Okios, una droga tecnologica che dà dipendenza come l’oppio, per tornare a ricordare il luogo in cui è cresciuto, la città di Atene e la natura circostante, lo spazio nel quale ha vissuto e amato prima che l’interesse e il potere trasformasse tutto in un deserto inquinato.

In fondo, anche il titolo del libro di Philip K. Dick da cui Ridley Scott ha tratto Blade Runner si chiedeva «se gli androidi sognano pecore elettriche».