Il pm che interrogava il brigatista superpentito Antonio Savasta strabuzzò gli occhi. Voleva informazioni sui rapporti con le Br di Lanfranco Pace, uno dei più attivi e più noti militanti del Movimento romano, ex dirigente di Potere operaio e redattore della rivista nel mirino Metropoli, in quel momento, primi anni ’80, inseguito da un mandato di cattura per il processo 7 aprile e rifugiatosi in Francia. Savasta rispose che sì, in effetti Pace era entrato nelle Br ma solo per modo di dire.

Non si era mai presentato a nessun appuntamento, neppure solo per distribuire volantini giustificando l’assenza con le ore piccole fatte al tavolo da poker. Gli austeri brigatisti lo posero di fronte a una scelta drastica: «O le Br o il poker». Lanfranco scelse il poker.

L’aneddoto dice moltissimo su chi sia stato Lanfranco Pace, militante politico e poi a lungo giornalista tra i più dotati, scomparso ieri a 77 anni dopo una dolorosa malattia che lo aveva trasformato anche fisicamente, dal gigante di vitalità traboccante che tutti nel Movimento romano riconoscevano a prima vista a un esile signore avanti con gli anni. Per uno come lui, «ragazzo di Movimento» dal primo all’ultimo giorno della sua intensa vita, il dogmatismo cadaverico e la disciplina soffocante delle Br sarebbero stati intollerabili anche senza la passione per le carte. Era figlio di tempi migliori: costitutivamente insofferente alla disciplina, intollerante nei confronti di ogni sorta di ordine costituito incluse le discipline di partito, sovversivo per modalità esistenziale prima che per ideologia politica.

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Con le Br Pace avrebbe avuto a che fare di nuovo, dopo quel meteorico passaggio, nel 1978, quando con Franco Piperno provò a salvare la vita di Aldo Moro. Era troppo intelligente per non capire lucidamente quale disastroso errore politico sarebbe stata l’esecuzione progettata dalle Br. Si diede da fare per salvare quel che ancora restava del Movimento di quegli anni, non solo per evitare l’uccisione dello statista democristiano. Non ce la fece ma fu quello che nel carosello impazzito di quei giorni, quando tutto girava freneticamente a vuoto, ci andò più vicino. L’unico a rivolgersi ai soli interlocutori possibili: i brigatisti, quelli con cui fino a qualche anno prima aveva fatto politica fianco a fianco.

A Parigi Pace cambiò vita, sorprendendo tutti quelli che ne conoscevano le abitudini anarchiche. Laureato in ingegneria, con alle spalle solo l’esperienza del militante politico a tempo pieno, si scoprì un talento naturale di cronista, entrò nella redazione di Libération e ci rimase per oltre 15 anni. Tornato in Italia diventò una delle penne di punta del Foglio, diretto dal suo grande amico Giuliano Ferrara, con cui collaborò anche in tv nella redazione di Otto e mezzo. Erano testate su posizioni molti distanti da quelle che Pace aveva assunto nelle sue vite precedenti, a volte opposte.

Il suo non è certo il solo caso di ex rivoluzionario approdato poi su altre sponde. Pace però lo fece, a differenza di quasi tutti gli altri, senza mai rinnegare niente del suo passato, e conservando intatta l’idiosincrasia di sempre per ogni riflesso d’ordine. In particolare per quelli di una sinistra sempre più giustizialista e appiattita sulla difesa sempre e comunque della magistratura.

Dalla sua vita piena e disordinata Lanfranco lascia la compagna con cui ha passato gli ultimi vent’anni, Sabrina, due figlie dalle giornaliste Stefania Rossini e Giovanna Botteri, sue ex compagne, uno stuolo innumerevole di amici e compagni che non smetteranno mai di sentirne la mancanza. Noi siamo tra questi.