Nel 1985, dall’incommensurabile distanza del suo esilio autoproclamato di San Diego, Sandor Márai, rivolgendosi al lettore ideale del proprio diario, paventava la prospettiva che i profeti razzisti e populisti già saliti alla ribalta negli anni Trenta potessero prendere di nuovo la parola in Ungheria: «Il comunismo è una tragedia», chiosava, «ma il vero nemico di sempre è l’ipocrita destra arraffona in costume nazionale».

Se all’epoca le parole di Márai potevano suonare come la confessione di un inveterato «borghese» (già nel 1934 d’altronde si era definito così), ormai ottantacinquenne e irrimediabilmente lontano dalla sua madrepatria, difficile non attribuirgli retrospettivamente una sinistra eco profetica oggi che la massima onorificenza attribuita in occasione della festa nazionale del 15 marzo (con cerimonia provvidenzialmente postposta causa intensa nevicata) è andata a János Petrás, cantante della rock band neonazista Karpatia, nonché autore dell’inno dell’ala paramilitare del partito di estrema destra Jobbik. Nel frattempo, il premio giornalistico Tancsics è stato conferito a Ferenc Szaniszlo, altrimenti celebre per i commenti antisemiti e anti rom somministrati dal pulpito televisivo dell’emittente Echo. Solo quattro giorni prima il premier Viktor Orbán aveva ottenuto dalla sua maggioranza, pari a due terzi dei seggi parlamentari, una esautorazione de jure della Corte costituzionale, che d’ora in poi non potrà più contestare nel merito le misure approvate dal potere legislativo, peraltro ampiamente controllato dall’esecutivo. Tra le prime norme introdotte come emendamento alla legge fondamentale dello Stato, la possibilità per i partiti di fare campagna elettorale solo attraverso i media nazionali; la ridefinizione del concetto di famiglia, che non includerà più le coppie non sposate, senza figli o formate da persone dello stesso sesso; la perseguibilità amministrativa dei senza dimora; l’introduzione di vincoli alla libertà di espressione, qualora essa offenda una non meglio precisata dignità nazionale.

Alla luce degli ultimi «sviluppi» – il centro sociale ebraico Sirály sgomberato dalla polizia, e lo storico della Shoah László Karsai condannato in prima istanza per aver definito Jobbik un partito neonazista (22 marzo) – risuonano più che mai attuali le parole del filosofo G. M. Tamás che già nel 2000, all’epoca del primo governo Orbán, in un saggio apparso su Boston Review aveva coniato la nozione di «post-fascismo» per designare la tendenza non solo ungherese ad avallare elettoralmente prassi biopolitiche finalizzate a un drastico ridimensionamento del diritto di cittadinanza.

Sul parquet della sua casa di Pest Alain Badiou, Antonio Negri, David Harvey, ma anche Pier Paolo Pasolini, si sovrappongono in un disordine non casuale, tracciando una costellazione frutto di oscillazioni e ripensamenti. Nato nel 1948 nella città transilvana di Cluj-Napoca, in una famiglia appartenente alla minoranza ungherese di Romania, Tamás è stato negli anni Ottanta figura di spicco dell’opposizione di sinistra al regime di János Kádár. La transizione successiva al 1989 lo vede in parlamento sui banchi della coalizione di centro-destra Alleanza dei democratici liberi, insieme alla maggior parte degli ex dissidenti. Una breve fascinazione «per l’Occidente in sé e per sé» (nonché per le ipotetiche capacità autoregolative del libero mercato) che non riesce tuttora a definire altrimenti se non come un periodo di «frivola cecità». Nel 1994 inizia a profilarsi la (definitiva) svolta marxista, che renderà il suo percorso sostanzialmente opposto a quello seguito dagli allievi di György Lukács e dall’ex amica Ágnes Heller. In occasione delle elezioni del 2010, Tamás ha animato il progetto «Sinistra ecologica», primo tentativo di dar vita a un’alternativa progressista disgiunta dalla compromessa eredità socialista e ispirata al modello tedesco di Die Linke.
Quali sono le ragioni storiche profonde dell’involuzione autoritaria cui assistiamo oggi in Ungheria?
Da una parte stiamo ancora scontando il fallimento del capitale ideale investito nelle rivoluzioni pacifiche del 1989, nonché le conseguenze del crollo di un modello di vita – quello socialista – che era pressoché identico da Berlino est ad Hanoi. Non c’è voluto molto per rendersi conto che le aspettative e le speranze delle popolazioni dell’Europa centro-orientale non erano compatibili con l’assetto della democrazia liberale, fondata sulla società del rischio. Da qui la sensazione diffusa tra i miei connazionali di essere stati abbandonati, di aver sostituito una forma di tirannia con un’altra. Se lei domanda alla gente per strada che cosa si aspetta dallo Stato, le verrà risposto – oggi come vent’anni fa – «che finalmente si ritorni all’ordine». Il problema, ovviamente, è che cosa si intenda per «ordine». Se negli anni Novanta questo termine implicava ancora il rispetto delle regole della convivenza civile e l’esistenza di un welfare state; oggi al contrario si pensa che la fine del «caos» postsocialista coincida con la soppressione di ogni forma di assistenza sociale per gli emarginati – disoccupati, pensionati, senzatetto, rom. Elementi «improduttivi» che vengono non solo criminalizzati dal governo Orbán, desideroso di distrarre l’attenzione da una politica economica fallimentare, ma anche stigmatizzati da una retorica filistea diffusa, condivisa ahimè da persone che si autodefiniscono di sinistra. E le conseguenze sono particolarmente tragiche in un paese in cui quattro milioni di persone (su una popolazione totale di nove milioni e mezzo) necessiterebbe di una forma di aiuto.

D’altro canto, la situazione ungherese sembrerebbe costituire una drammatica eccezione rispetto ad altri paesi dell’ex blocco socialista…
Sì, perché il collasso economico dei primi anni Novanta è avvenuto qui in modo decisamente drastico e traumatico, come in Polonia. Al contrario del caso polacco, però, non bisogna dimenticare che quella ungherese è una realtà fortemente secolarizzata. Nessun discorso alternativo, neppure quello religioso, ha saputo contrapporsi alla radicalità del progetto biopolitico volto a trasformare il diritto universale di cittadinanza in privilegio esclusivo di quella parte della società che, sulla scorta di Georges Bataille, potremmo definire «omogenea»: di razza caucasica, eterosessuale, lavoratrice, procreante.

Per descrivere tale disegno antiegualitario una decina di anni fa lei ha elaborato il concetto di post-fascismo. Potrebbe spiegarlo brevemente?
Per fascismo post-totalitario intendo il rifiuto della tendenza illuministica ad assimilare il diritto di cittadinanza alla condizione umana. Un processo osservabile non solo da noi, che avviene all’interno dello spazioso carapace del capitalismo globale e non implica affatto la sospensione dei meccanismi della democrazia rappresentativa. Anzi, l’elettorato diventa il gendarme schierato a sostegno della crescente marginalizzazione di gruppi sempre più ampi di individui.

Secondo lei a distanza di tempo questa categoria resta valida per interpretare la situazione ungherese?
Sì, ma con un post-scriptum: che il progetto biopolitico si è spogliato di ogni residuo velo di ipocrisia, assumendo a livello verbale una violenza inaudita rispetto al passato. Tanto i politici, quanto i comuni cittadini non si vergognano più di esprimere posizioni apertamente razziste. Ogni richiamo all’egualitarismo è bollato come elitario e «antipatriottico». Si assiste a una diffusa perdita di senso morale che rende particolarmente complessa l’elaborazione di un discorso persuasivo a sinistra.

Quali sono, a suo avviso, i possibili margini di cambiamento in un quadro così fosco?
Gli spazi di manovra sono molto ristretti, ma qualche piccolo indizio positivo si comincia a intravedere. La gente è scontenta, anche se il malessere è certamente sovrastato dalla passività e dall’acquiescenza. Per esempio non ama Orbán, lo rispetta e lo teme, ma non lo ama, e anche questo è un elemento che va tenuto in considerazione. Personalmente guardo con grande attenzione al movimento di protesta che, benché timidamente e con enormi ritardi rispetto al resto dell’Europa centro-orientale, inizia a prendere forma nel mondo studentesco, non più dominato da Jobbik come pochi anni fa. Gli universitari stanno sperimentando forme molto interessanti di confronto dialettico che, in una certa misura, mi ricordano le interminabili discussioni all’interno delle cerchie eterodosse negli anni Ottanta.