Il Cairo, 2008: mancano ancora più di due anni ai fatti del gennaio 2011 che portarono alla violenta deposizione di Mubarak. Ma nello sguardo di un cairota questi sono già gli ultimi giorni della città – The Last Days of The City, come recita il titolo del film di Tamer El Said presentato nella selezione di Forum alla Berlinale. E anzi, gli eventi che hanno portato a piazza Tahrir si stanno già accumulando da decadi, come osserva il regista stesso.

Autore di cortometraggi e documentari, El Said decide però di raccontare questi giorni attraverso un lungometraggio di finzione, il primo della sua carriera, anche se girato fin dentro la stessa casa del regista, in quelle strade che attraversa tutti i giorni.

Nato nel 1972 nella capitale egiziana e diplomato all’Istituto di Cinema, Tamer El Said nel corso degli anni ha anche fondato una casa di produzione e la Cinematheque, luogo in cui coltivare lo sviluppo della cinematografia indipendente al Cairo.

Il desiderio di realizzare questo lavoro presentato a Berlino, racconta, nasce nel 2006: «Ero perseguitato da una serie di eventi accaduti nella mia vita e nel mio paese, e sentivo l’urgenza di fare un film per riuscire a comprenderli».

Un’urgenza tale che le riprese hanno inizio con a disposizione solo il 15 per cento del budget necessario: «Senza abbastanza persone, sempre senza soldi». È per questo che le riprese, che nel progetto originario dovevano durare tre mesi, finiscono per protrarsi per due anni. Cosa che si rivela però positiva: «E’ la ragione per cui è stato immortalato tutto il periodo che precede i fatti del gennaio 2011».

Per quale motivo sono gli ultimi giorni della città?

All’epoca c’era la sensazione che qualcosa stesse per accadere, che non si potesse continuare così e che la «fine» fosse vicina. E questa fine mi suscitava sentimenti contrastanti: da un certo punto di vista volevo che arrivasse perché ci fosse così anche un nuovo inizio, ma allo stesso tempo avevo paura che portasse via con se tutto ciò che amavo. Ho sempre visto ciò che faccio come parte del processo di comprensione di me stesso, giro film per diventare una persona migliore, per porre domande e rifletterci sopra.

Ed era così importante comunicare che ciò che è accaduto nel gennaio 2011 non è stato qualcosa di improvviso, ma è stato sedimentato nel tempo. Allo stesso tempo ero immerso nel «linguaggio» della città, speravo di imparare a filmare Il Cairo. Penso che sia una città molto fotogenica, con una sua bellezza. E per me riprenderla non significa farne foto turistiche: si tratta di catturarne l’anima, di trovare un modo per far provare allo spettatore le sensazioni che la città provoca.

Il film è un insieme di documentario in prima persona e fiction

Io dico sempre che certi film sono autobiografici, mentre altri sono personali. Questo per me è un film personale: non trovo ci sia nulla di così interessante nella mia storia privata da raccontare. Ma soprattutto per me non si trattava tanto di mescolare realtà e finzione, quanto di giocare col genere, provare a trovare la mia voce, il mio modo di usare le immagini e il suono. Ho sempre pensato che immagini e suoni possano essere usati per diversi scopi: tradurre emozioni e pensieri, porre domande, dare risposte.

Il mio intento principale era capire da dove vengo, cosa mi ha formato e mi rende ciò che sono. Sono cresciuto in mezzo alle turbolenze del Cairo, incastrato da sempre tra una dittatura e l’estremismo religioso, in cerca di una connessione con una città che mi respinge.

Quanto si vede nel film è un momento di passaggio molto importante nella storia egiziana. Cosa si prova a rivedere oggi quelle immagini?

Alle volte stavo chiuso in casa a lavorare al montaggio di una scena per ore, poi uscivo e per strada vedevo le stesse persone, le stesse immagini a cui stavo lavorando e che avevo ripreso tre anni prima. Pensavo quindi spesso a cosa stava cambiando e a cosa invece era rimasto uguale, e a cosa significassero questi cambiamenti. È stato un processo di spostamento da un punto di partenza a uno di arrivo, da cui si impara molto e che soprattutto solleva molte domande sulla nostra responsabilità come filmmakers.

È pericoloso in questo momento essere un regista che fa questo tipo di film in Egitto? 

È una situazione pericolosa a prescindere dal fatto che tu sia un filmmaker, un dottore o un insegnante. Ma il vero problema è come trovare tutti i giorni la forza di svegliarsi e continuare il proprio lavoro quando tutto è contro di te.

Cosa pensa dell’omicidio avvenuto al Cairo del ricercatore italiano Giulio Regeni?

È un altro terribile evento che deriva dalla mancanza di ogni minima sicurezza per le persone che fanno il loro lavoro. Un’ulteriore dimostrazione di quanto sia difficile rimanere ancorati alla realtà, assumersi la responsabilità di documentare la verità, scegliere di essere fedeli a se stessi e al proprio lavoro.

Una scelta che ti porta a entrare in un mondo da cui molto probabilmente non potrai tornare indietro.