«Lo diciamo sin da ora: servirà un proficuo lavoro del ministero degli Esteri che dovrà suscitare la collaborazione delle autorità egiziane. Solo la polizia egiziana, infatti, può notificare gli atti e dare il via libera per ascoltare a processo i 27 testimoni inseriti nella nostra lista e che vivono in Egitto. Questa collaborazione sarà fondamentale per una compiuta ed esaustiva ricostruzione dei fatti». Il procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco, che ha coordinato le indagini fin dal 3 febbraio 2016, giorno in cui il corpo di Giulio Regeni venne ritrovato orrendamente massacrato, lo dice forte e chiaro nell’aula Occorsio del tribunale di Roma dove si è celebrata la seconda udienza del processo agli agenti della National Security Agency egiziana accusati – solo in Italia – del sequestro, della tortura e dell’omicidio del ricercatore friulano.

STAVOLTA, COME SPIEGA IL PM, non basta dire, come fa la premier Meloni, che l’Italia pone «tendenzialmente sempre questa questione» negli incontri con il presidente egiziano Al Sisi. Perché già, ricorda Colaiocco, da «un Paese amico ci si aspettava una collaborazione che invece non c’è stata». Ora, se è vero che anche con il governo di destra «la posizione dell’Italia non cambia» fino all’ottenimento della verità e della giustizia per Giulio Regeni, il ministro Tajani dovrà dimostrarlo. Con una postura democratica davanti ad un Paese dove dall’inizio dell’anno almeno sette persone sono morte nelle carceri, secondo i dati ufficiali, ma un report del Tahrir Institute for Middle East Policy parla di «violazioni sistematiche» e «violenze nascoste» sui detenuti delle nuove prigioni costruite negli ultimi anni dal regime e pubblicizzate come all’avanguardia. Mentre, secondo il giornalista Hossam el-Hamalawy, «gli agenti della Sicurezza Nazionale continuano a condurre arresti arbitrari e ad inventare accuse di terrorismo contro i cittadini del Cairo e delle province», in una strategia «di deliberata randomizzazione della violenza e di affermare la ragion d’essere della Homeland Security».

Il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamal e Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdel Sharif sono accusati nel processo italiano, a vario titolo, di concorso in lesioni personali aggravate, omicidio aggravato e sequestro di persona aggravato. La seconda Corte d’assise di Roma ha respinto le eccezioni di nullità del processo avanzate dalla difesa degli 007 egiziani, seguendo le indicazioni della Consulta che nel settembre scorso ha dichiarato costituzionale il procedimento contro gli imputati assenti e malgrado l’Egitto si sia rifiutato di comunicare i loro recapiti. Scrivono i giudici: «Le modalità prescelte per il sequestro non possono che essere ispirate a quelle finalità essenziali della tortura pubblica di tipo punitivo e/o intimidatorio».

SECONDO LA RICOSTRUZIONE della procura, il ricercatore friulano è stato vittima di una vera e propria «ragnatela creata sia attraverso l’acquisizione del passaporto, a sua insaputa, perquisizioni in casa in sua assenza, pedinamenti, fotografie e video, sia attraverso le persone “amiche” che Regeni frequentava e che riferivano, in tempo reale, ai quattro, dei loro incontri con l’italiano». Una persecuzione che è andata avanti dal settembre del 2015 al 25 gennaio del 2016, giorno del rapimento. Dieci gli elementi probatori «decisivi», secondo i pm, tra cui i video della metropolitana, il pc di Regeni, i tabulati telefonici e i tanti tentativi di depistaggio messi in atto per evitare di far emergere la verità (dal movente sessuale, alla rapina fino all’eliminazione fisica di una “banda criminale” additata dalle autorità cairote come responsabile della scomparsa di Regeni).

Tra i testimoni chiamati dal procuratore Colaiocco compaiono tra gli altri i nomi di Abdel Fattah al-Sisi, dell’ex premier Matteo Renzi, dell’ex ministro degli Esteri Paolo Gentiloni e della madre di Giulio, Paola Deffendi, che perciò non potrà assistere alle udienze. Nella prossima, il 9 aprile, sarà ascoltato il padre Claudio. Entrambi i genitori ieri non hanno voluto commentare le parole di Giorgia Meloni: «Diciamo solo che nel nostro Paese fortunatamente c’è la separazione dei poteri, a differenza di quello che succede nei regimi».