«Preferisco romanzare la realtà, se no perché andare al cinema?». La frase di Jacques Demy sul quadernino di appunti trovato nella sacca della Quinzaine mi accompagna tra le stanze del Suquet des Artistes, al centro del vecchio quartiere in cima a Cannes, che ospita la bella mostra «Cinéma(s) en liberté» (fino al 27 maggio, 10-12.30/14.00-18.30, rue Saint Dizier 7, ingresso libero). E fantasia (al potere) come quel coraggio che per Rocha contava persino più del talento caratterizzano pensieri e frammenti di un cinema in movimento nel proprio tempo, balena nei montaggi «a tema» lungo il percorso espositivo «Non fare l’amore è malsano e controrivoluzionario» si legge sul manifesto di WR: Mistery of the Organism, il capolavoro di Dusan Makavejev. Stephen Dwoskin e i suoi ritratti maliziosi di ragazze (adessolo interdirebbero), Jackie Reynal Deux Fois e il gruppo Zanzibar, Philippe Garrel e Actua I, uno dei più bei film sul Maggio Sessantotto, montaggio di diverse immagini girate da persone diverse, Kurt Kren e il corpo come campo di battaglia.

Pensata all’interno della festa per i cinquant’anni della Quinzaine des Realisateurs, la sezione nata dal Maggio ’68 quando le lotte del Paese, che poi erano del mondo, arrivarono sulla Croisette bloccando il festival, la mostra ne ripercorre gli anni tra il 1969 e il 1972 attraverso le forme di un «Cinéma en liberté» – che è stato il primo nome della Quinzaine – di cui era subito diventata il riferimento principale. Sono gli anni delle Nouvelle Vague, delle battaglie politiche, dell’impegno, della necessità di trasformare radicalmente il presente che nel lavoro di una generazione giovane di cineasti si unisce alla ricerca di nuove forme con cui raccontare il mondo che interrogano il senso stesso del fare cinema. Cosa significa un film politico, in che modo rendere narrazione quanto accade nella vita, i dissapori, le spaccature, i sentimenti, le contraddizioni?

La realtà dunque è lì, vicina e lontana insieme, impone di riposizionarsi anche nei mezzi tecnici (e di produzione), altri mondi irrompono a capovolgere un concetto autoriale europeo. Jean Rouch aveva cominciato a restituire il suono del mondo con l’uso della presa diretta già nel 1953 – in Italia accadrà molto tardi obbligando i documentaristi alle voci narranti off – in Les Maitres fous. Un mitico Nagra e l’Eclair 16 millimetri per essere «leggeri», per entrare nelle cose, equilibrare prossimità e distanza. In Italia un giovanissimo Gian Maria Volontè discute in una poco bucolica campagna dove sui muri la faccia di Stalin viene barrata a favore di Mao: Vento dell’est di Godard col gruppo Dziga Vertov è già dopo il Sessantotto e i suoi sogni di rivoluzione, quasi un presagio del tempo a venire col suo inevitabile revisionismo e insieme l’affermazione di un io collettivo che si oppone all’ego dell’autore. Rocha, che appare nel film, è tra i protagonisti del nuovo cinema che in Brasile si oppone alla dittatura, un’ondata che attraversa l’America latina, soffocata dai golpe americani che impongono dittatori come Pinochet (Votos màs fusil di Helvio Soto) , a Cuba la Scuola di cinema alleva i migliori talenti critici, il «Terzo Mondo» comincia a cercare una prima persona contro l’identità del colonialismo.

Calcutta di Malle e i manifesti di Cara a Cara di Bressane, l’Udigrudi che piaceva poco al Cinema novo di Rocha. Robert Bresson e Andrea Tonacci. Le scelte compongono una visione che al di là delle cronologie restituisce di quel tempo il sentimento e la spudoratezza, l’irriverenza e la potenza degli immaginari. Qualcosa di molto diverso dall’ «impegno» che si sbandiera a colpi di divieti quest’anno sulla Croisette, un’energia vitale – e senza nostalgia vintage – di cui visto il molto pubblico giovanissimo nelle sale sembra esserci oggi più che mai bisogno.