Oggi è considerato un protagonista assoluto del romanzo poliziesco, ma all’epoca, per definire il profilo innovativo delle sue opere, la stampa tedesca seppe coniare solo un brutto neologismo, «etno-thriller», che evocava più l’esotismo a buon mercato che il valore e il significato specifico di quelle storie. Eppure, malgrado sia scomparso prematuramente nel 2013 a soli 48 anni stroncato dal cancro, Jakob Arjouni, insieme al suo personaggio feticcio, il detective privato turco-tedesco Kemal Kayankaya, protagonista di cinque romanzi tradotti in tutto il mondo, – nel nostro Paese da Marcos y Marcos – ha per molti versi indicato la via a quanti sarebbero venuti dopo, assestando un duro colpo ai cliché della crime novel.

Jakob Arjouni

Fin dai tempi di Happy birthday, turco!, pubblicato in Germania nel 1985, l’investigatore chandleriano di Francoforte, sbruffone ma irresistibile, è riuscito a dimostrare come ad indagare credibilmente tra le pieghe della società locale potesse essere proprio un «nuovo tedesco», figlio di uno spazzino turco ma con regolare passaporto della Rft. Per più di un decennio, l’ultimo titolo della serie, Fratello Kemal, è uscito in Italia nel 2014, Kayankaya si è trovato a fare i conti con i quesiti di fondo di una comunità che stava via via affrontando gli anni tumultuosi della riunificazione, lo scatenarsi di una guerra terribile, nella ex Jugoslavia, non lontano da casa, l’emergere del razzismo e del neonazismo. Il tutto, avendo prima di tutto a che fare con i traffici illeciti, le violenze e le minacce ordite dalla malavita del luogo in combutta o in competizione con quella albanese, turca, croata o bosniaca.

Senza mai prendersi per questo troppo sul serio, con quel personaggio e decidendo di firmare i suoi romanzi con il nome della moglie di origine marocchina Kadisha Arjouni, lo scrittore Jakob Michelsen, figlio di un noto drammaturgo di Amburgo, aveva fatto implicitamente una scelta di campo: osservare le crescenti contraddizioni della realtà tedesca dal punto di vista più scomodo. Quello di un investigatore che deve prima di tutto superare i pregiudizi e i sospetti della società in cui opera, come Arjouni non mancava di sottolineare, con una certa dose di ironia, nei dialoghi dei suoi romanzi. Come in Carta straccia (2011). «Bene, bene, signor Kayankaya, lei è dunque un detective privato. Nome interessante, Kayankaya». «Più che interessante, turco».

Il detective John Shaft al cinema

Anche se rari, nell’ambito della storia più che centenaria del poliziesco, non è che prima dello scrittore tedesco fossero mancati del tutto i casi di autori bianchi che avevano scelto di raccontare le loro storie con volti «diversi». Molto noti, anche grazie alle rispettive trasposizioni cinematografiche, quelli di Charlie Chan, poliziotto di origine cinese creato negli anni Venti da Earl Derr Biggers, dell’agente segreto giapponese Mr. Moto – nei film diventerà un detective – nato nel decennio successivo dalla penna di John P. Marquand, o di Mr Wong, investigatore cinese di San Francisco, emerso nello stesso periodo grazie a Hugh Wiley. Del resto, anche alcune icone black come l’ispettore Virgil Tibbs e il detective privato John Shaft devono i propri natali a dei bianchi, rispettivamente John Ball e Ernest Tidyman.

Perché i detective, e il mondo del crimine afroamericano fossero raccontati in prima persona da un nero, si era dovuto attendere un autore come Chester Himes che però, proprio a causa delle discriminazioni razziali che aveva subito quando lavorava a Hollywood, lascerà gli Stati Uniti già negli anni Cinquanta, ottenendo solo in seguito il meritato riconoscimento. Accanto a lui, la figura di Robert Beck, meglio noto come Iceberg Slim che dalla fine degli anni Sessanta inizierà a trasformare in romanzi – pubblicati da Shake – le proprie esperienze di magnaccia e di piccolo criminale per le strade di Chicago.

Questi gli antecedenti letterati immediati di autori neri oggi noti e affermati come Walter Mosley (Bompiani), Attica Locke (Bompiani) e Paula L. Woods; i romanzi di quest’ultima sono ancora inediti da noi. I tempi sono del resto cambiati e il filo intrecciato oltre trent’anni fa a Francoforte tra identità e romanzo poliziesco, sullo sfondo delle metropoli attraversate dalla globalizzazione – non solo in Europa e negli Stati Uniti, ma in tutto il mondo – da Jakob Arjouni, sembra aver messo radici un po’ ovunque, contribuendo non certo ad eliminare, ma perlomeno a raccontare con altri accenti pregiudizi e discriminazioni.

La scrittrice coreano-americana Steph Cha

Americani «con il trattino», vale a dire appartenenti a delle minoranze, come spiegava Michael Walzer definendo il destino del Paese come quello di una «nazione di nazioni», sono ad esempio due protagonisti dell’ultima stagione del noir statunitense: lo scrittore di Miami Alex Segura, a cui si deve il personaggio dell’investigatore cubano-americano Pete Fernandez e Steph Cha, responsabile della rubrica di noir della Los Angeles Review of Books che ha scritto tre romanzi che vedono protagonista il detective coreano-americano Juniper Song; uno dei quali è in uscita per 21lettere.

Questo, mentre dall’altra parte dell’Atlantico, A. A. Dhand, cresciuto a Bradford, dove vive la più grande comunità del sub continente indiano della Gran Bretagna, ha creato il detective della omicidi Harry Virdee, uno sbirro sikh già protagonista di diverse indagini (Sem). Allo stesso modo, in Francia è dal laboratorio culturale delle banlieue che arrivano alcuni nomi del possibile polar del futuro. Dopo figure come quella di Nan Aurousseau, l’ex criminale che scoprì la propria vocazione letteraria in seguito ad un incontro casuale con Jean-Patrick Manchette, suoi Blues di banlieue e Dello stesso autore (e/o), negli ultimi anni sono emersi, tra gli altri, i nomi di Rachid Santaki, Alain Agat, che ha firmato Négropolis e Cloé Mehdi, autrice, quest’ultima di Nulla si perde (e/o).