Ci sono voluti oltre 30 anni, ma alla fine l’assassinio di George Floyd e le sommosse popolari estese e infuocate negli Stati uniti hanno smosso la coscienza anche di Michael Jordan. Il mito dello sport americano ha fatto sapere, tramite un messaggio sul profilo Twitter degli Charlotte Hornets (la squadra Nba di cui è azionista di maggioranza), di essere furioso e di averne abbastanza delle continue violenze della polizia sui neri d’America.

JORDAN, SEI TITOLI con i Chicago Bulls negli anni Novanta, mai si era spinto così in avanti contro il razzismo. L’impegno pubblico sempre evitato di slancio, come gli avversari sul parquet. Republicans buy sneakers («anche i repubblicani comprano le scarpe») spiegava Jordan negli anni Ottanta, frase smentita nella recente serie-evento The Last Dance su Netflix sulla leggenda della squadra di basket di Chicago. Si riferiva alle sue scarpe, le Air Jordan prodotte da Nike, che fatturano oggi miliardi di dollari. Mai farsi nemici, neppure nell’ala più conservatrice e intollerante del Paese. Nonostante nella sua autobiografia The Life, Jordan avesse raccontato della sua avversione verso i bianchi a causa delle continue vessazioni sui neri, delle lattine scagliate contro i bambini che lo chiamavano «negro» alle scuole elementari. E di quella parola, «inferiore», ripetuta come un mantra dai compagni di baseball al college nel North Carolina dominato dalla furia del Ku Klux Khan.

Nella Nba, Jordan raccolse il testimone da grandi sportivi impegnati per l’uguaglianza razziale. Da Muhammad Alì, prima ancora da Bill Russell, stella dei Boston Celtics che negli anni Sessanta si vide vietare una camera di albergo perché negro. Preferì essere decisivo solo sul campo. Dopo di lui, da Kobe Bryant a Lebron James, gli eredi si sono invece impegnati pubblicamente contro l’intolleranza.

MA DA MINNEAPOLIS è cambiato qualcosa e la conversione pubblica di Jordan forse è la fotografia più centrata della rivolta in atto, la più incisiva dai tempi dell’estate 1965 a Watts (Los Angeles), alla base della nascita, un anno dopo del Black Panther Party.

E tra atleti e attivisti che hanno affrontato migliaia di chilometri in auto per manifestare nelle loro città come ad Atlanta Jaylen Brown (Boston Celtics) è da mandare a memoria la lezione di Kareem-Abdul Jabbar, il miglior realizzatore nella storia della Nba e mente raffinata della comunità afroamericana, che sul Los Angeles Times ha definito il razzismo «polvere nell’aria, invisibile anche quando ti sta soffocando, fino a quando non lasci che entri il sole», aggiungendo che si tratta di un «virus più mortale del Covid-19», denunciando la caccia all’uomo ai danni dei neri e che la fila di tweet carichi di intolleranza di Donald Trump che incoraggia agli spari contro i saccheggiatori «confermano lo spirito di questi tempi».

Ma oltre all’intervento di Jabbar c’è lo sdegno di Lewis Hamilton (appoggiato da Mercedes e dal ferrarista Leclerc), sei volte campione del mondo in F. 1, che ha evidenziato il silenzio del mondo delle corse «dominato dai bianchi» sugli Stati Uniti che vanno a fuoco per motivi razziali.

UN’ONDA DI SILENZIO che avvolge anche il calcio, escludendo qualche caso nel campionato tedesco, tra cui Marcus Thuram (Borussia Moenchengladbach), figlio di Lilian, difensore francese di origine del Guadalupe, (ex Parma e Juventus) e autore di libri sul razzismo, che dopo un gol all’Union Berlin si è inginocchiato, a testa bassa, in segno di protesta per la morte di George Floyd. Come Colin Kaepernick, il campione di football che quattro anni fa durante l’inno nazionale pre partita con quel gesto contro le violenze sui neri sconvolse gli Stati uniti, finendo nel mirino del presidente Donald Trump.