A New York le 17 sono diventate l’orario delle manifestazioni pro Palestina, che si concentrano nella zona degli uffici di midtown Manhattan, che a quell’ora inizia ad accogliere il traffico dei pendolari. «È una lezione imparata ai tempi di Occupy Wall Street – dice Beverly, 37 anni, che nel 2011 era fra gli occupanti di Zuccotti Park – Per ampliare la visibilità si va dove già c’è gente, specialmente perché le manifestazioni vengono annunciate all’ultimo momento per dare meno tempo alla polizia di organizzarsi».

SEGUENDO questa strategia, da circa un mese le proteste iniziano nella zone turistiche come quella di Columbus Circle per spostarsi nell’area intorno a Times Square e infine approdare a Grand Central, dove due/tremila persone riescono a impedire l’accesso ai binari di uno dei più grandi snodi di trasporto della città. Le manifestazioni finora sono sempre state pacifiche, di quelle a cui i genitori portano i figli. «Io e la mia famiglia non abbiamo alcun legame con la Palestina – dice Julian, in piazza con suo figlio di 12 anni – L’unico legame è la difesa dei diritti umani, che è ciò su cui si basa l’America. È importante difendere la parità di diritti per tutti gli esseri umani e in questo momento vediamo un doppio standard tra palestinesi e israeliani. Quello che è successo il 7 ottobre è stato terribile, ma non giustifica l’uccisione di oltre 10.000 palestinesi».

PER CHI È IN PIAZZA il referente degli slogan è Joe Biden che continua ad essere criticato, e sabato migliaia di persone si sono radunate vicino alla sua residenza in Delaware, scandendo slogan molto chiari: «Niente cessate il fuoco, niente voto», «A novembre – mese delle elezioni – ce ne ricorderemo. A Biden non basterà tornare a Washington per non sentire le voci delle proteste: il prossimo martedì è in programma una manifestazione a favore di Israele, abbastanza grande da vedere fianco a fianco la Zionist Organization of America e l’Americans for Peace Now, nonostante i primi sostengano che i secondi appoggiano l’antisemitismo. I leader di entrambi i gruppi hanno detto che il 14 novembre a Washington sfileranno insieme nonostante le opinioni diverse.

GARANTIRE la presenza di questi due gruppi, che sono saldamente di destra e di sinistra, è uno degli scopi della manifestazione, il cui obiettivo principale non è quello di sostenere il sostegno Usa allo sforzo bellico di Israele, ma dimostrare che nonostante la polarizzazione un ampio spettro di organizzazioni ebraiche possono ancora unirsi dietro un messaggio generale di sostegno a Israele e di opposizione all’antisemitismo.
Ma non senza spaccature. «Non sono l’unico a trovarsi nella situazione in cui mia madre 80enne dell’Arizona vuole andare a manifestare a Washington – dice Sam, 54 anni, ebreo americano – mentre io e mia sorella andremo a quelle in favore della Palestina. Le ho detto: ’10.000 morti non ti bastano?’. Per lei è diverso, è da quando siamo piccoli che la sento dire che ’se è già accaduto, può accadere di nuovo’. Mia madre è laica e democratica, ma capisco che ora ha paura».

La tensione è anche tra istituzioni. Un ufficio del dipartimento di Stato, riferendosi alla distruzione di una casa palestinese a Gerusalemme, ha attaccato pubblicamente l’ambasciata israeliana negli Usa, scrivendo su X: «Il governo di Israele ha demolito la casa di una famiglia palestinese in risposta alle azioni del figlio di 13 anni. Un’intera famiglia non dovrebbe perdere la propria casa a causa delle azioni di un singolo individuo».«Il tredicenne è un terrorista che ha ucciso un cittadino israeliano», è stata la risposta secca dell’ambasciata israelian