Jayyus ha una storia antichissima. Il nome, si dice, nasce da quello di un comandante romano, Larjyus. Nel 1948 contava una popolazione di qualche centinaio di persone, oggi ce ne vivono 5mila, per lo più contadini. Situato a est della città di Qalqiliya, nella Cisgiordania occupata, dagli Accordi di Oslo del 1993 il territorio di Jayyus è diviso tra Area B e Area C: il 75% ricade nella seconda, è sotto il controllo sia civile che militare israeliano.

UNA DECINA di anni dopo, nel 2002, nel pieno della Seconda Intifada Jayyus fu la prima comunità palestinese a iniziare proteste contro il muro di separazione, ai suoi albori. Il muro ha accelerato il processo di confisca di terre. Oggi la situazione non è migliore: il ciclo di violenza militare, spesso invisibile, che investe da mesi la Cisgiordania, a Jayyus si è tradotta in un coprifuoco totale e prolungato.

Da cinque giorni la cittadina è completamente chiusa dall’esercito israeliano secondo cui lì si nasconderebbe il responsabile di un attacco armato che domenica scorsa ha ferito un soldato e un civile. Alla gente di Jayyus è vietato uscire di casa, ogni ingresso è stato sbarrato da blocchi di cemento (chi era fuori al momento della chiusura non è mai potuto rientrare), i soldati pattugliano le strade e invadono le case per perquisizioni violente, detenzioni e intimidazioni: «Cooperate con l’esercito per individuare il terrorista», si legge nei volantini lasciati ai residenti palestinesi. Alcune case sono state tramutate in basi militari, altre sono state devastate.

A POCO PIÙ di cento chilometri in linea d’aria, nel centro di Gaza, ieri è stata giornata di bombardamenti incessanti. Tra il campo di Nuseirat e Deir al Balah si è scatenato il panico. Dalla notte precedente i raid si sono susseguiti uno dietro l’altro, tanti hanno provato a fuggire verso sud. La conferma l’ha data lo stesso esercito israeliano che ha detto di aver lanciato «un’operazione limitata» contro Hamas a Nuseirat: i raid hanno preceduto l’offensiva via terra.

Prima i droni, poi il fuoco pesante dell’artiglieria che ha devastato i quartieri presi di mira. Almeno sette i palestinesi uccisi. E poi altri due a Jabaliya, due a Tal al-Hawa, sei nel mercato Firas di Gaza City (per un totale di 33.545 uccisi accertati dal 7 ottobre). Non va meglio a Rafah: il giornalista Hani Mahmoud ha riportato dell’uccisione di sei persone che stavano raggiungendo la famiglia per il secondo giorno di Eid al-Fitr, la festa di fine Ramadan.

Si è salvato per un soffio il team dell’Unicef in viaggio verso il nord: «Aspettavamo (al checkpoint) quando è partito il fuoco – ha raccontato Tess Ingram, la portavoce dell’agenzia Onu a bordo del convoglio – Il fuoco partiva dal checkpoint verso i civili in fuga. Siamo stati fortunati. Ma non è un caso isolato». Il convoglio di aiuti aveva ricevuto il via libera israeliano, ma dopo ore di attesa è stato rimandato indietro, verso Rafah.

«È COME SE l’esercito di occupazione avesse lanciato una nuova guerra nel centro di Gaza – ha detto Raouf Abed, un giovane residente di Deir al Balah ad Al Jazeera – Le esplosioni erano no-stop, il rumore arrivava da diverse direzioni. Ogni volta che speriamo in un cessate il fuoco, Israele intensifica l’aggressione, colpendo noi civili per fare pressione su Hamas».

Una pressione che due giorni fa sarebbe passata per l’uccisione di tre figli e tre nipoti del leader politico di Hamas, Ismail Haniyeh. Ieri il portale Walla, tra i più conosciuti in Israele, dopo aver sentito alcuni funzionari dell’intelligence di Tel Aviv, ha scritto che l’ordine di aprire il fuoco sarebbe arrivato dall’esercito e dallo Shin Bet e che il premier Netanyahu non sarebbe stato consultato. Una possibilità che appare remota a molti analisti che leggono in quel raid un modo per far deragliare il negoziato in corso al Cairo, che al contrario i servizi israeliani caldeggerebbero.

Netanyahu infatti prosegue nella sua personale campagna di allargamento del conflitto. Ieri, dalla base dell’aviazione di Tel Nof, il primo ministro ha detto che Israele è pronto a impegnarsi «in altre arene di guerra»: «Ci stiamo preparando a garantire i bisogni di sicurezza dello Stato di Israele sia in difesa che in attacco».