Pubblicato nel 1951, protagonista Holden Caulfield, un sedicenne, il romanzo poneva in evidenza lo stato d’animo della generazione adolescente della middle class americana a segnare una discontinuità, forse una cesura, rispetto alle convenzioni culturali e sociali che vi erano diffuse e accettate.

Mi riferisco a The Catcher in the Rye di J. D. Salinger che, nella traduzione italiana di Adriana Motti e con il titolo Il giovane Holden, fu pubblicato da Einaudi nel 1961. Avevo allora tra i quindici e i sedici anni, ero coetaneo di Holden Caulfield ed ero anch’io uno studente che, dalla quinta ginnasio, passava alla prima liceo.

Non credo di aver letto il libro di Salinger in quell’anno 1961. E tuttavia quel libro – in copertina l’attraente acquarello o inchiostro di Ben Shan dove un ragazzo seduto nell’azzurro sorbisce un cono gelato multicolore – prese a circolare in quei mesi tra quanti io frequentavo.

Infatti anche in Italia, se non ricordo male, il romanzo divenne subito un caso letterario. Mi piacerebbe poter consultare il supplemento «Libri» che, ogni venerdì, stampato in verde e nero, corredava allora «Paese sera». Lo leggevo assiduamente e lo conservavo con cura. Forse ne scrisse Gianfranco Corsini. Forse, come capitava, prese avvio da una prima recensione un dibattito ed altri interventi ebbero forse luogo nelle settimane successive. Mi piace pensarlo.

Sono molti i modi per mezzo dei quali si finisce per aver a che fare con un libro. Con un libro non letto si può avere una dimestichezza anche notevole se lo hanno letto altri intorno a te e te ne parlano. Altri che ne scrivono, che lo citano. Altri che, pur non avendolo letto, o letto solo in parte, ne imbastiscono una critica o un apprezzamento sulla base di giudizi o di pregiudizi ben articolati e congegnati per sentito dire ma, talvolta, con intelligenza.

Un romanzo di successo è un catalizzatore che inevitabilmente attira una certa quantità di elementi spuri che si combinano in luoghi comuni o si riducono a citazioni ripetute, sempre le stesse, sempre dagli stessi. Formano quella crosta d’attorno alle vicende narrate che le rende, nella ripetizione, di pubblico dominio.

Non credo abbia giovato a The Catcher in the Rye il titolo della traduzione italiana: Il giovane Holden. Pur trattandosi di un Bildungsroman quel titolo ne accentua, per dirla franca, il carattere generazionale e poi di referto sociologico. Ne attenua invece o cancella – tratto pure eminente del ‘romanzo di formazione’ come genere – il dato fantastico, l’afflato onirico che nel resoconto delle due giornate e notti Salinger ottiene per dilatazioni, concentrazioni e quel continuo tralasciar di aggiungere un prosieguo di notizie ovvie o presunte tali o date per superflue con quegli «eccetera eccetera», «e via dicendo», «e così via» che il titolo – bellissimo – originale gli conservava: l’afferratore e coglitore nel campo di segale, non meno del giocatore di baseball che prende la palla nel whisky di segale.

Ma, poi, nel titolo inglese c’è la scuola, c’è il sapore delle letture scolastiche. Un verso di Robert Burns (1759-1796) imparato da Holden gli si fissa nella mente con un errore di memoria (la sostituzione del verbo to meet, ‘incontrare’, con il verbo to catch, ‘prendere al volo’) e vi si accampa generando una sua affabulazione indipendente, e produce così una invenzione tanto assoluta quanto irreversibile. Una connessione fantastica si instaura e resta indelebile nella memoria.

Dice Holden alla sorella Phoebe: «Sai quella canzone che fa ‘Se scendi tra i campi di segale, e ti prende al volo qualcuno’?». Phoebe lo corregge: «Dice ‘Se scendi tra i campi di segale, e ti viene incontro qualcuno».

Era nata, da quel fraintendimento, una immagine nella quale Holden si immedesima: si vedeva «in piedi sull’orlo di un dirupo pazzesco», prendere al volo, Catcher in the Rye, e salvare quei ragazzini che giocano nel campo di segale e non si avvedono del burrone nel quale stanno per cadere.

Il disagio di Holden, le sue matte inconcludenze e i fantastici fraintendimenti mi si rivelano oggi altrettante ‘salvazioni’ delle quali, grazie a Salinger, la mia generazione ha potuto avvantaggiarsi.