La rivoluzione sovranista preannunciata da Diritto e Giustizia (PiS) alla vigilia delle elezioni dell’ottobre 2015 è in parte avvenuta, determinando rotture a livello economico, sociale e culturale. In questi anni il partito al potere, guidato da Jarosław Kaczynski, ha cercato di occupare ogni spazio: anche la memoria. Su questo punto la dobra zmiana, il «buon cambiamento» di cui Kaczynski si fa interprete, si è tradotto in una processo di revisionismo storico-culturale che ha portato a cingere d’assedio alcuni grandi musei del Paese. Il caso più recente, e forse eclatante, è quello del Polin, il museo sulla storia degli ebrei polacchi. Sorge a Varsavia, nel cuore dell’ex distretto ebraico, poi ghetto.

Dariusz Stola ne è stato il direttore dal 2014 al febbraio 2019. Sotto la sua guida, molto apprezzata, il Polin è stato nominato miglior museo europeo nel 2016, e l’anno successivo ha raggiunto il milione di visitatori. Scaduto il mandato quinquennale, Stola si è presentato al concorso pubblico per l’incarico da direttore, vincendolo. Eppure il ministro della cultura, Piotr Glinski, non ha formalizzato la nomina. Sostiene che Stola, nel corso della sua gestione, abbia portato avanti una politica aggressiva nei confronti del governo.

Il PiS in questi anni ha cercato di frenare il dibattito sulla questione ebraica, in particolare sulle responsabilità polacche per alcuni pogrom avvenuti in tempo di guerra, nell’intento di raccontare un Paese senza conti in sospeso con il proprio passato. Un esempio è la cosiddetta «legge sull’Olocausto», approvata nel 2018 e poi ritirata, che sanzionava chiunque associasse la Polonia ai crimini contro gli ebrei. Dariusz Stola aveva preso posizione, dichiarando che si trattava di una misura che avrebbe avuto effetti negativi sulla ricerca storica, in quanto creava un clima di intimidazione. Stola ha irritato il potere anche con la mostra «Estranged», sugli eventi del marzo del ’68, quando il regime comunista, per superare una crisi interna, diede sfogo all’antisemitismo costringendo migliaia di ebrei polacchi – i superstiti dell’Olocausto – a lasciare il Paese. In una sezione della mostra, premiata da un’altissima affluenza di pubblico, campeggiavano i discorsi antisemiti pronunciati da politici polacchi dal ’68 a oggi. Un paio, pur se non attribuiti, erano legati a esponenti del PiS.

A causa del limbo in cui Stola è finito, alcune ombre si allungano sul futuro del museo. L’incertezza sulla sorte del direttore sta infatti inducendo molti finanziatori privati dagli Stati Uniti e da Israele a ritardare le donazioni.

Se il Polin è in naftalina, il Museo della seconda guerra mondiale, a Danzica, creato sotto gli auspici dell’ex premier liberale Donald Tusk, è stato preso dal governo subito dopo l’inaugurazione, nel 2018. Via la direzione di vedute liberali, dentro una in quota PiS. L’obiettivo del museo resta lo stesso per cui è nato: collocare il Paese al centro della memoria europea sulla guerra. Del resto il conflitto iniziò in Polonia e per Danzica, storico pomo della discordia con la Germania. È però mutata, radicalmente, la narrazione nella mostra permanente. In più frangenti cede al risentimento anti-tedesco, sempre presente nel Paese, che in guerra ebbe sei milioni di morti, di cui la metà ebrei. Tale sentimento, tra l’altro, è una delle risorse per il consenso del PiS.

Ma la sala del museo che più colpisce – e qui torniamo alla questione ebraica – è quella dove spiccano due gigantografie risalenti ai primi giorni dell’occupazione nazista a Danzica: una ritrae dei polacchi in riga, appena prima di essere giustiziati; l’altra un ufficiale nazista che irride un ebreo. Si vuol comunicare, in questo modo, che i polacchi furono sterminati da subito, mentre l’Olocausto iniziò più tardi. Il che è storicamente vero, ma messa così la faccenda prende la piega di una competizione artificiosa tra dolori, e sfocia nel vittimismo.

Sempre a Danzica c’è un altro museo di grande successo sotto pressione. È quello su Solidarnosc, il movimento che liberò la Polonia dal comunismo. Nacque nel 1980 al termine di uno sciopero ai cantieri navali della città baltica. Diretto da Basil Kerski, brillante intellettuale liberale, il museo celebra l’epopea di Solidarnosc e il mito del fondatore, Lech Wałesa. Ma Wałesa è odiato dai populisti, che lo accusano di essere stato al soldo dei servizi segreti comunisti e di aver svenduto il Paese con le liberalizzazioni radicali degli anni ’90. E questa, per molti, è la prima ragione a monte del taglio effettuato dal ministero della cultura, uno dei finanziatori del museo, sulla quota da versare per il 2019. L’altra è un convegno sulle minoranze sessuali – un «comunismo di ritorno» per governo e chiesa cattolica – che il museo ha ospitato un po’ di tempo fa. Kerski, a ogni modo, ha risolto il problema lanciando una campagna di crowdfunding. Buco coperto, in breve tempo.

*centrumreport.com