Sono 130 le persone spiate illegalmente dall’intelligence militare colombiana negli ultimi mesi, secondo un’inchiesta pubblicata dalla rivista Semana pochi giorni fa. Tra loro, gli inviati di giornali internazionali come il New York Times e il Washington Post e il direttore in America latina dell’ong statunitense Human Rights Watch. Ma anche politici e giornalisti locali.

L’ennesimo smacco al processo di pace cominciato con la firma degli accordi tra il governo del Nobel per la pace Juan Manuel Santos e le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia (Farc) nel dicembre 2016 dopo cinquant’anni di guerra civile. Da allora più di 900 dirigenti sociali ed ex membri della guerriglia sono stati assassinati, gli impegni presi dallo Stato sono stati disattesi e un gruppo di ex guerriglieri ha addirittura ripreso le armi nel 2019.

Non sorprende che le vittime dello spionaggio illegale reputino insufficiente la condanna pronunciata dalle forze armate (alla Reuters il ministro della Difesa Luis Fernando Navarro ha riportato della cacciata di 11 ufficiali e le dimissioni di un generale, senza citare i nomi) e del presidente Ivan Duque.

«Questo nuovo scandalo non si risolve con la separazione di qualche ufficiale di rango minore – spiega Antonio Sanguino, portavoce al senato del Partido Verde e nella lista dell’esercito – Siamo di fronte a una grande operazione di spionaggio illegale che potrebbe coinvolgere più di 300 obiettivi, fatta con le risorse delle forze militari e della cooperazione internazionale». Secondo Sanguino, però, non si può incolpare l’intera istituzione militare di intralciare la pace. Ma neanche si può parlare solo di qualche mela marcia.

«Esiste un settore legato a una forza politica molto potente ancora intrappolato in una logica di guerra fredda, quella del nemico interno, che ha dominato l’esercito durante il periodo della violenza politica degli ultimi 50 anni», sostiene Sanguino, che forma parte della commissione parlamentare che ispezione le promozioni dentro le forze armate.

Carlos Antonio Lozada, al secolo Julián Gallo, capogruppo del partito Farc al senato, concorda con la diagnosi: «Nonostante sia stato firmato un accordo di pace che esprime il bisogno di cambiare la dottrina militare, dentro alle forze armate esistono poteri che ne impediscono di fatto il progresso». Imbracciate le armi a 17 anni, nel 1978, Lozada è scampato a più di un attentato nelle montagne colombiane per poi diventare uno dei capi negoziatori più esperti dell’estinta guerriglia.

Oggi è uno dei cinque senatori assegnati in due legislature consecutive dagli accordi di pace alla forza politica creata dagli ex guerriglieri. «Siamo oggetto di campagne diffamatorie costanti, in certi casi dirette dallo stesso palazzo presidenziale, e che hanno tra gli effetti quello di incoraggiare i sicari che scaricano le loro armi sui nostri militanti», denuncia.

In Colombia la difesa dei diritti umani e ambientali può costare la vita. L’Istituto di Studi per la Pace e lo Sviluppo (Indepaz) ha registrato 250 dirigenti sociali assassinati nel 2019. Nei primi quattro mesi del 2020 siamo già a quota 109. Di questi, 24 erano ex membri delle Farc che avevano abbandonato le armi nel 2016.

Durante la campagna elettorale per le amministrative dell’ottobre scorso, la Fondazione Pace e Riconciliazione (Pares) ha denunciato l’uccisione di 22 candidati, 171 minacce di morte e 27 attentati. Gruppi paramilitari, narcos, soldati regolari, gruppi guerriglieri, sicari al soldo di latifondisti e uomini d’affari, i responsabili rispondono a molteplici interessi e sono protetti da numerosi poteri.

«Il cammino per superare questa situazione è già tracciato nell’accordo finale di pace – enfatizza Lozada – Se esistesse la volontà politica della classe dirigente colombiana di applicarlo, nel breve termine in Colombia potrebbe cambiare la situazione. Ma sappiamo che sotto questo governo non potrà succedere». E avverte: «Siamo oggetto di controllo e diffamazione per poter generare le condizioni di continuità dello sterminio politico in atto».