La manifestazione dei lavoratori Gkn oggi a Firenze è importante non solo per i lavoratori coinvolti ma per tutti coloro che si stanno ribellando a chiusure e deindustrializzazione, a catene del valore spezzate e ricucite, troppo spesso altrove. Delocalizzazioni in Polonia per Gkn, in Romania per Bekaert che qualche anno fa ha trasferito dallo stesso territorio la produzione di rivestimenti in acciaio per pneumatici. Insieme a molti altri, sollevano due questioni fondamentali per l’industria italiana.

La prima riguarda la transizione a nuovi modelli e tecnologie delle filiere della componentistica. Filiere ancora per lo più agganciate alla grande produzione tedesca, ma con futuro incerto. Ad alto valore aggiunto e contenuto tecnologico, la componentistica – soprattutto di aerospazio e automotive come quella prodotta da Gkn – è parte fondamentale dell’industria italiana.
Nel 2019, prima della crisi pandemica, c’era già stato un calo di fatturato. Ad esempio, nel settore dei motori – che rappresenta il 18% sul totale esportato con un saldo attivo di 1,12 miliardi di euro – il calo è stato del 3,9% rispetto al 2018. La componentistica subirà una transizione, questo appare ormai certo, ma chi la coordinerà? C’è in ballo l’elettrico, ma anche la pressante modularizzazione: si sta andando verso il modello one model one plant, ovvero la razionalizzazione di pochi modelli (talvolta uno o due) prodotti in ciascun impianto produttivo.

Questo approccio pone sfide organizzative, tecnologiche e di apprendimento oltre che un continuo confronto con altri stabilimenti che competono sulla stessa struttura dei costi. L’andamento dei costi determina una serie di decisioni che ricadono sulle filiere dei diversi paesi: il comparto della componentistica si trova senza la presenza di meccanismi di coordinamento che possano tutelare e accompagnare nuove e vecchie produzioni nel territorio italiano.
Stiamo parlando di un settore fondamentale per la nostra economia con circa 250 mila addetti tra diretti e indiretti, quasi il 7% degli occupati nel settore manifatturiero.
Si tratta di occupazioni stabili migliori rispetto ai servizi a basso valore aggiunto che hanno costituito la grossa parte di lavoro creato dopo la crisi del 2008. La creazione di lavoro, come la transizione da un settore o modello a un altro hanno bisogno di meccanismi di coordinamento, in altre parole di politica industriale, una realtà più discussa che praticata nelle scelte strategiche italiane.
Ad esempio, da tempo e su più fronti si auspica un attore di aggregazione e coordinamento della catena di fornitura italiana; con la cessione di Magneti Marelli da Fca al fondo Kkr abbiamo ‘perso’ l’unica azienda – per dimensioni e storia – in grado di poter svolgere questo ruolo.

Oltralpe, il processo viene svolto dalla francese Faurecia una delle più grandi aziende di componentistica al mondo con oltre 115mila dipendenti, con un forte interesse ad aumentare i volumi di produzione per il nuovo gruppo Stellantis. Inoltre, non a caso è nata proprio in Francia, dall’unione tecnologica tra Psa e Total, l’azienda Acc, che darà vita alle due gigafactory di batterie in Francia e in Germania.
Qualche settimana fa si è annunciata la volontà di mantenere, se non espandere, la produzione di Melfi e di aprire la terza gigafactory proprio in Italia, a Termoli. Un nuovo polo dell’energy storage è una bella notizia, ma rischiamo di essere impreparati, perché sia lo Stato che grandi attori come Fca non hanno investito nella ricerca, innovazione e produzione di batterie nelle ultime due decadi. Il nuovo polo avrà bisogno di ingenti investimenti, di infrastrutture e competenze di vario tipo, ad esempio meccatronica e scienza dei materiali che supportino la transizione della fabbrica di Termoli, e della sua filiera, che allo stato attuale produce motori.
La mancanza di una politica industriale e quindi di un raccordo sistemico tra istituzioni pubbliche e industria privata, soprattutto grande e media, rischia di innescare una serie di ripercussioni sul sistema produttivo e sull’occupazione. Tutto ciò a fronte di altri paesi europei con cui competiamo e “facciamo affari”, e che continuano a sostenere il settore, basti pensare agli 8 miliardi annunciati dalla Francia e agli oltre 3 miliardi annunciati dalla Spagna – entrambi nel 2020 – a favore della transizione all’elettrico.

In Italia, sebbene una politica industriale che si preoccupi di progettare sul medio-lungo periodo una transizione industriale, ecologica e occupazionale non sia mai stata così necessaria, appare ancora lontano il momento in cui si passerà all’atto pratico individuando attori, obiettivi, settori e strategie per tutelare lavoratori e interessi nazionali.