D’estate, nel monferrino, si andava a fare il bagno e la pesca per mero diletto adolescenziale. Da principianti dell’acqua dolce quali siamo sempre stati. Le reti si riempivano abbondantemente, colme di una generosità che solo il fiume di allora sapeva offrire. Poi si prendeva ciò che senza fatica si era raccolto, lo si gettava sulla brace, insieme al sale, e lo si mangiava voluttuosamente. Ci si lanciava in acqua, sbuffando davanti alle ossessive raccomandazioni di chi minacciava il rischio dei «mulinelli» che sembravano infestare, come torbidi e minacciosi crepacci, il pacioso scorrere di quella incredibile massa d’acqua. Già, quei mulinelli che a pensarci ora assomigliavano tanto a degli imponderabili e imprevedibili buchi neri, l’antimateria idrica. Si diceva che molti cani ci fossero morti, trascinati dall’improvvisa potenza delle acque. Un monito del tipo: «mica vorrai morire come uno dei tanti meticci che girano nel vuoto delle campagne?».

C’ERA TUTTAVIA RITEGNO e rispetto dinanzi alla maestà del fiume, alla potestà del suo corso. Una sorta di autostrada d’acqua, apparentemente placida, destinata a non cessare mai se non alla foce, riversandosi in quell’Adriatico che per molti era il vero premio dell’estate, il mare con l’ombrellone, le biglie, la sabbia, i mosconi, le biciclette in tandem e i tedeschi da sfottere.
Mai come in questi casi il fiume diventava allora il simbolo sovrano, imperturbabile, insondabile della continuità della vita ma anche il presagio di una morte possibile. Tutto intorno, un brulicare di esistenze, un profluvio di flora e fauna che solo occasionalmente l’uomo riusciva a spezzare. C’era qualcosa di misterico e selvaggio, al medesimo tempo.

LO AVEVA CAPITO appieno Gianni Celati. Il segno tangibile della presenza umana erano i ponti, dove scorreva il traffico laborioso, separato dall’ambiente circostante. Tutto il resto era sabbia, legno, rocce e un fogliame ricchissimo, lussureggiante, qualcosa che ben si congegnava con la fantasia di Salgari. Si giocava disordinatamente, riparando poi nelle «baracche», le costruzioni di legno, perennemente insediate dalla violenza della natura circostante, dove i pescatori e i cacciatori riponevano i loro strumenti di lavoro e di vita. Chissà perché ma se il Po nasce dal Monviso per i più si genera invece a Torino, alla confluenza del Sangone.

È il fiume operaio e commerciale raccontato da Carlo Levi, da Arpino, da Calvino, da Mario Soldati, per poi fare l’anguilla che si muove sinuosa e imprendibile tra Pavia, Piacenza, Cremona, Mantova, Reggio, Parma, Ferrara, Rovigo. Ai giorni nostri il Po lo si naviga con fatica, almeno in questo lungo periodo di secca infelice, tanto pallida quanto arsa come solo un’estate senza tempo sembra essere. A guardarlo, nel suo lungo percorso, si ha quasi l’impressione che sia qualcosa di morente. Letteralmente, riposa stanco e ischeletrito nel suo letto. Di consunzione. Come le alghe e la vegetazione che gli fanno da corona, addobbo funebre che correda la salma di colui che fu re ed ora non riesce a essere neanche villano. Non è più lui, altrimenti maestoso e portentoso quanto placido o malmostoso, a seconda delle circostanze.

SI GONFIA SOLO PIÙ nelle stagioni invernali, presago allora di tracimazioni ed esondazioni, ingrossato e turgido di cupe, torbide e livorose acque che sembrano scapicollare, rubando tutto quello che circondano e scavalcano, per poi trascinarlo impietosamente verso chissà dove. Eppure, nella sua originaria conformazione, rimane un fiume sinuoso ma anche piatto come la lunga, interminabile campagna alla quale dà sia i natali che la vita stessa.

Un ecosistema in via di drastico mutamento che si porta con sé, insieme alle cose, anche le generazioni che lo hanno frequentato poiché di esso sono vissute. Una congerie di culture materiali e di legami, di relazioni sociali, di intrecci culturali, un viluppo di saperi e insediamenti, di identità e conflitti, di sapori e abitudini. Il tutto sospeso tra esperienza quotidiana e sue infinite trasfigurazioni, lavoro e mitografia della terra, acqua e calcestruzzi, varchi e ponti, campi e fabbriche. I fiumi, si sa, possono essere elementi di genesi così come di distruzione, matrici dell’esistenza e sua brutale cancellazione. Danno vita al pari di quanto la possono togliere. Oggi, il Po di questa rovente e stanca estate, tempo del nostro reale malcontento, calore torrido e umido di un’attesa senza termine, nella sua esiguità più che altro offre involontario corpo e specchio alla fragilità delle nostre esistenze: un fiume che più non scorre in tante sue parti, se non come infelice rigagnolo tra sabbia e sassi, è come un desiderio senza corpo, un pensiero che si dimentica di se stesso.

Eridano, in omaggio alla mitologia greca, ma anche Bodincus e soprattutto Padus – ad omaggio della ricchezza e del rigoglio di gallici pini selvatici (i padi) presenti alle sue sorgenti – come anche il Pad per i popoli slavi, genera la pianura che ha costruito nel tempo, e con essa le società che si sono alternate. Non è un caso se la pianura padana, si presenti piatta, priva di significative linee di discontinuità, al pari del fiume che la solca: anch’essa, in fondo, sembra scorrere su un prevedibile tappeto, quasi fosse una dimensione geografica senza increspature e, quindi, priva di conflitti.

Il fiume si alimenta di mitologie non meno che di cose e persone. Le seconde ci restituiscono un complesso ambiente, dove il lavoro a contatto con gli elementi naturali rimane per l’uomo quasi un tutto autosufficiente, fatto com’è di imbarcazioni, di modi di remare, di attrezzi e modalità di pesca, di idrovie, di guadi e traghetti ma anche di attività individuali a contatto con l’acqua: il mugnaio, l’acquaiolo, il segantino, il cavatore di ghiaia e di sabbia, l’impagliatore di sedie, la lavandaia, il cercatore d’oro, il cacciatore, il guardiano idraulico, il pescatore di rane, il raccoglitore di chiocciole, il raccoglitore di funghi.

Le costruzioni mitologiche, al pari, si sprecano, si accavallano, si intrecciano. Anch’esse, nel volere dare di conto di tante esistenze, sono non di meno il racconto di una morte possibile se non probabile. Fetonte, che salì sul carro del sole, ne perse il controllo. I cavalli imbizzarriti e impazziti dalla paura, correndo per la volta celeste disegnarono la Via Lattea. Tornati a terra, ne distrussero una parte, desertificandola. Zeus, adirato, punì l’improvvida mancanza di rispetto con un fulmine che fece precipitare il malcapitato alle scaturigini di Eridano.

LE SORELLE ELIADI, piangendone inconsolabilmente la morte, vennero trasformate in pioppi, mentre le loro lacrime divennero ambra. Gli argonauti, intrepidi navigatori, si spinsero fino al corpo, ancora caldo, di Fetonte, circondato da un lezzo insopportabile. Anche da ciò, quindi, l’espressione «fetido», che rimanda alla dimensione cadaverica, alla decomposizione che l’acqua porta con sé. Alla mitologia più consolidate si accompagnano le leggende di chi visse in prossimità del corso d’acqua. La quale, a dispetto della sua naturale vocazione a scorrere, sembra nascondere animali tanto fantastici quanto spaventosi.

Nella Bassa padana permane l’ombra della Borda, un essere indefinito che trascinerebbe i malcapitati nelle acque improvvisamente limacciose. C’è poi la Bosma, una sorta di grande biscia d’acqua (ma è il nome anche di un uccellaccio del malaugurio), dalle dita palmate, che, si dice, di notte succhierebbe il latte alle puerpere, consegnando i neonati alla fame più nera. I fantasmi del buio e della mancanza di cibo, nelle notti senza luce, quando l’elettricità era assente, e il nutrimento scarseggiava, sono reincarnati in queste figure della fantasia.

OGNI FIUME, d’altro canto, ha le sue fonti materiali e simboliche. Dove uomini e animali si mischiano: così come il fojanco, un imprecisato rapace notturno a tre zampe, razziatore di pollai ma anche prosciugatore delle botti di lambrusco, come anche l’unicorno (l’homo saurus, rettile umano) e il worbas, due figure mitologiche, destinate a incontrarsi con l’uomo coccodrillo, dalle mani e dai piedi palmati, di pelle squamosa e muso allungato. Oggi, di tutto ciò rimane solo una lontana eco, insieme all’acre profumo dei nostri anni morti e a quell’odore di merda secca che il suo lento scorrere porta con sé. Il fiume è la vera metafora della vita: nascemmo dalla sorgente, mentre ora già si intravvede a distanza la foce. Quella della nostra esistenza.