C’è un ragazzino che vuole crescere in fretta eppure davanti al bivio tra l’infanzia e l’età adulta avrà ancora un attimo di esitazione: cosa significa crescere, quali rinunce, quale destino? Pio ha tredici anni, beve, fuma già molte sigarette ma intorno lui fumano anche i più piccoli. Vive alla Ciambra, una comunità rom in Calabria, a Gioia Tauro, paesaggio di mondezza, abusivismi, regole ferree di divisione del territorio con la mafia locale che detta le leggi, loro i gitani da una parte e i migranti dall’altra, africani soprattutto, quelli ammassati tra accampamenti, squat, e necessaria «arte» della sopravvivenza. Ma Pio, così si chiama il ragazzino, ha in testa la lezione del vecchio capo della comunità, il nonno che arriva da una passato lontano, ormai forse soltanto leggenda, che gli dice di non piegarsi,di essere libero nel mondo.

A Ciambra, è il nuovo film di Jonas Carpignano, un romanzo di formazione come lo era in qualche modo il precedente (sempre a Cannes, alla Semaine de la Critique) Mediterranea: lì la scoperta di un mondo, sicuramente diverso dalle aspettative, di un migrante, e la sua progressiva conquista del nuovo posto in cui è arrivato a vivere qui il rito di passaggio di un ragazzino, in entrambi nessuna impresa «eroica» che non sia quella della realtà.

20vis1jonascarpignano-photo-carlaorregoveliz-lowddddddddddddddd

Ma è proprio questa la scommessa filmica del giovane cineasta, cresciuto lontano dall’Italia, in America, e poi tornato a vivere nei luoghi che racconta, un’immersione che gli permette di restituirli dall’interno e con l’amore «vero» di chi non vuole modificarli per renderli conformi ai nostri desideri. Era la vita dei migranti in un posto come Rosarno in Mediterranea – di cui ritrova uno dei protagonisti Koudous Seihon e la sua amicizia con Pio che anche in quel film smerciava alla comunità africana oggetti rubati – è la vita nelle sue sfaccettature, e in quello che magari non ci piace, della Ciambra, di Pio e degli altri della famiglia Amato.

Carpignano li aveva incontrati qualche anno fa, e il ragazzo era stato protagonista del corto – presentato alla Mostra di Venezia – con lo stesso titolo. La prima volta – lo racconta il regista nel dossier stampa – era stato perché mentre giravano il cortometraggio gli avevano rubato la macchina, e la gente del posto gli aveva detto di andare dagli «zingari»: «L’energia della Ciambra mi ha impressionato subito, volevo scrivere una storia con loro senza la pretesa di affrontare nel film una dimensione complessa come è quella dei rom che ha molte sfumature».

Non è dunque la letteratura dei gitani su cui punta anche se appare nei sogni e nei desideri confusi del giovane protagonista. Quello che interessa Carpignano è piuttosto il racconto della contemporaneità «liquida» con cui le sue immagini cercano di dialogare opponendosi alle iconografie di una rappresentazione che, appunto, ha bisogno di eroi «buoni» e di «cattivi» che rispondano a certe aspettative.

La sua materia sono i luoghi, il sud già laboratorio delle contraddizioni, e il possibile o impossibile incontro tra chi ne è parte, le comunità come in questo caso degli africani e dei rom che non si amano, che mantengono le distanze, che esprimono il conflitto. Dove «diventare grandi» può significare anche tradire il proprio amico, non è bello, ma fa parte di quella libertà, del flusso di vita, che il regista sa infondere nei suoi personaggi.

O magari, e allo stesso tempo, la crescita «forzata» di Pio è anche la negazione di quella libertà, compressa nell’imperativo di essere fedele al campo, alla famiglia, senza poter più trovare riferimenti al di fuori, in quell’amico sincero che per Pio è sempre stato l’africano Ayiva (Koudous Seihon). La libertà di cui gli parla in sogno il nonno – noi soli contro il resto del mondo – da un lato lo costringe a una scelta e dall’altro nutre la sua fierezza nel non piegarsi a ciò che gli altri, e anche chi guarda, vorrebbero da lui.

La stessa libertà della macchina da presa di Carpignano che anche nelle impennate imperfette, sa cogliere il dettaglio importante, l’energia dei gesti, delle parole (in dialetto strettissimo) di una messinscena del quotidiano. E soprattutto sa narrare sullo schermo mondi ai margini, di cui tutti parlano ma che difficilmente vengono raccontati al di fuori di moralismi ipocriti e pregiudizi.

Il ragazzino Pio che vuole essere capofamiglia, perché la famiglia è tutto, portare i soldi a casa anche se non sa leggere e scrivere – ma tanto adesso gli sms si possono mandare a voce – è davanti a noi come gli altri col suo «eroismo» di ogni giorno, spavaldo e pure criminale, sul limite di scelte dolorose che appaiono quasi inevitabili, e persino sconcertanti nella loro «verità». Il cinema di Carpignano lo accompagna, in un flusso di bella energia, senza retorica, in relazione col mondo.