Nella primavera  del 1949, mentre saliva all’ultimo piano del palazzo di rue Beautreillis dove abitava Pierre Boulez, a pochi passi dalla casa in cui vent’anni dopo sarebbe morto Jim Morrison, Aaron Copland sentì un pianoforte che rovesciava sulla tromba delle scale una musica selvaggia, inaudita, incomprensibile. Copland era tornato a Parigi per scoprire le ultime tendenze della musica moderna, e John Cage gli aveva consigliato prima di tutto di andare a trovare Boulez. Quando il musicista francese ebbe finito di suonare parti della Seconda Sonata per pianoforte che stava componendo, Copland chiese al giovane maestro: «Ma allora dobbiamo cominciare da capo una nuova rivoluzione?». E questi rispose, «mais oui, sans pitié». Boulez non era il solo a sognare una rivoluzione musicale in quegli anni, ma quel «senza pietà» ne rivelava il rigore, il furore radicale, il rifiuto di qualsiasi forma di compromesso con il mondo dell’armonia tonale, che a suo avviso era ormai, più che moribonda, già morta.  A ventiquattro anni non era facile portare il fardello di convinzioni incomprensibili non solo ai rappresentanti dell’estetica neoclassica, ma anche ai vecchi partigiani della dodecafonia, come René Leibowitz o Luigi Dallapiccola, in una solitudine musicale assoluta. Boulez, non aveva interlocutori, e tantomeno compagni di strada dai quali ricevere spunti o nuove idee. Quando John Cage arrivò a Parigi, all’inizio del 1949, per le sue ricerche su Erik Satie finanziate da una borsa di studio della Fondazione Guggenheim, la sua comparsa fu dunque una vera epifania.

Cage aveva già trentasei anni, e una storia alle spalle. Tornato in America all’inizio degli anni Trenta dopo aver viaggiato a lungo in Europa, aveva studiato composizione a Los Angeles con Adolph Weiss, un allievo di Arnold Schönberg, e a New York con Henry Cowell, l’inventore dei cluster sul pianoforte. Per un paio di anni fu anche allievo di Schönberg, di cui seguì le lezioni di analisi musicale, ma non lo studio del metodo dodecafonico. Le sue teorie, fra cui l’idea di comporre tramite serie ipercromatiche di venticinque note, l’interesse per il rumore e la tecnologia, la manipolazione della cordiera del pianoforte, sebbene considerate solo delle bizzarre espressioni artistiche, avevano dato un certo smalto alla sua figura pubblica. La famosa boutade di Schönberg, «è un genio ma non è un musicista», inquadrava Cage nell’ambito di un’avanguardia artistica che dall’Europa era passata negli Stati Uniti, il cui rappresentante più illustre era Marcel Duchamp, con il quale Cage collaborò nel 1943 per un concerto al Moma di New York scrivendo un lavoro per voce e pianoforte (percosso e non suonato in maniera tradizionale) su un testo tratto da Finnegans Wake di James Joyce.

Ci sono stati anni in cui preferivo i francesi agli italiani per la loro intelligenza… di recente, invece, ho trovato i francesi freddi di spirito e privi di libertà (John Cage)

Sembrerebbe incongruo che due personaggi così diversi come  Boulez e Cage abbiano trovato un’immediata sintonia, eppure la loro corrispondenza (pubblicata in francese e in inglese nel 1990 dalla Paul Sacher Stiftung a cura di Jean-Jacques Nattiez, e tradotta in italiano da Archinto nel 2006) dimostra eloquentemente come tutto ebbe inizio con un colpo di fulmine.  Dopo il ritorno di Cage a New York, i due amici continuarono il loro dialogo per via epistolare, un po’ in inglese e un po’ in francese, che l’americano padroneggiava meglio. Nel chiarire l’importanza del loro incontro, Boulez è il più esplicito: «tu sei l’unico – scrive a Cage nel gennaio del 1950 – ad avermi procurato un’ulteriore preoccupazione riguardo al materiale sonoro che impiego».

Il rivoluzionario compositore francese vedeva nell’anarchismo musicale di Cage un’arma per dare l’assalto finale alla struttura armonica che fin lì aveva retto ogni costruzione musicale classica, e il cui fetore persisteva – a suo dire – nella dodecafonia di Schönberg e di Alban Berg. Ne aveva già parlato durante la conferenza sulle Sonatas and Interludes di Cage, un evento culturale e mondano, che fece conoscere il compositore americano al pubblico di Parigi e alla cerchia musicale di Olivier Messiaen, che era stato il mentore anche di Boulez. Nel salotto di Suzanne Tézenas, la mecenate che avrebbe permesso a Boulez di organizzare l’avventura del Domaine musical – la società dei concerti da lui fondata a Parigi, nel 1954 – Cage aveva passato il pomeriggio ad armeggiare dentro al pianoforte sotto gli occhi terrorizzati della padrona di casa, specie quando aveva visto entrare nella cordiera un mezzo bicchiere di cognac.

Quel che aveva colpito Boulez era la possibilità – attraverso la manipolazione del pianoforte, ossia introducendo nella cordiera oggetti di metallo, legno, vetro e altro in grado di alterare la natura del suono – di distruggere la forma sonora ereditata dall’armonia classico-romantica, producendo, sebbene in maniera artigianale, dei «complexes de fréquences», aggregati di frequenze non limitati alle tradizionali sequenze armoniche dei suoni temperati. Se si trasporta il principio di questo pianoforte preparato all’orchestra, commentava Boulez, avremo non più dei suoni puri, bensì degli amalgami di frequenze sovrapposti, degli accordi senza alcuna funzione armonica. Il musicista francese pensava di aver trovato nel collega americano qualcuno che stava andando nella sua stessa direzione, ovvero verso l’idea di un serialismo in grado di controllare tutti i parametri della composizione, compreso il timbro, le dinamiche, le durate, offrendogli inoltre alcuni punti di vista originali come l’idea di sostituire le strutture armoniche con strutture ritmiche. L’inattesa fraternità artistica che si era creata con Cage era per lui un punto di partenza: «Non ci resta che affrontare il vero “delirio” sonoro, e fare con i suoni un’esperienza analoga a quella di Joyce con le parole».

La sola cosa che non trovo adeguata… è il metodo del caso assoluto. Al contrario, credo che il caso debba essere attentamente controllato, di ignoto ce n’è già a sufficienza (Pierre Boulez)

Non meno impressionato dall’intelligenza e dal carattere adamantino del giovane amico, Cage cercò di aiutarlo in ogni modo: lo presentò ai suoi editori, tentò, senza successo, di farlo invitare a Tanglewood da Copland, prolungando la tournée nell’America del Sud che Boulez stava per compiere nel 1950 al seguito del teatro di Barrault; promosse a New York esecuzioni della sua musica, accompagnate da conferenze che non destarono alcun interesse. Più anziano e meglio inserito nel mondo musicale, Cage era così in soggezione nei confronti di Boulez, che non ebbe il coraggio – gli confessò – di mostrargli il suo quartetto iniziato a Parigi, String Quartet in Four Parts. E, tuttavia, nel grande amore si annidavano già i germi dell’incomprensione, che sarebbe sfociata in una rottura irreparabile dopo il primo viaggio di Boulez a New York, alla fine del 1952.

Alla radice dello scontro, una questione di principio: Boulez si rifiutava categoricamente di accettare l’inclusione del caso nei processi compositivi. Per quanto ammirasse il progetto costruttivo di Cage in Music of Changes, per pianoforte non preparato –  pezzo ideato su una complessa griglia numerica a scacchiera, e composto con il metodo divinatorio dell’I-Ching –  non appena cominciò a subodorare che tirare le monete non fosse soltanto un metodo per determinare la neutralità dei suoni ma un principio decostruttivo che minava l’idea stessa di forma musicale, cominciò a attaccare il vecchio amico. In una lettera della fine del 1951, dopo aver sottolineato come le tavole di ordinamento del suono, delle durate, delle dinamiche preparate per Music of Changes fossero esattamente in linea con le sue stesse ricerche, Boulez prende nettamente le distanze: «La sola cosa che non trovo adeguata, mi scuserai, è il metodo del caso assoluto (by tossing the coins). Al contrario, credo che il caso debba essere attentamente controllato […] di ignoto ce n’è già a sufficienza».

Man mano che cresceva il loro contrasto, Boulez cominciò a colpire Cage anche in maniera obliqua. Ancora prima di partire per New York, pubblicò sul numero speciale della «Revue musical» dedicato a Satie un feroce articolo polemico intitolato Chien flasque, cane flaccido, giocando sulle  parole dei Préludes flasques (pour un chien), nel quale faceva a pezzi la musica di Satie, che Cage considerava invece il precursore della modernità, capace di immaginare strutture musicali legate alla durata e non all’altezza delle note. 

Nel momento in cui di fatto interrompeva il dialogo con il musicista americano, perfidamente, Boulez  dichiarò di essere sempre più interessato a discutere, invece,  con Stockhausen. Per Cage l’atteggiamento di Boulez ebbe un effetto devastante: gli risultava incomprensibile come una divergenza di vedute potesse riflettersi anche sui rapporti personali, e le cicatrici di questa rottura rimasero in lui ben visibili a distanza di anni. In Silence, la raccolta di scritti pubblicata nel 1961, in calce a un articolo del 1949 pubblicato su «Contrepoints» e legato simbolicamente a Boulez, Cage schizzò una scenetta ambientata in un ristorante veneziano, in cui tratteggiava il classico confronto tra italiani e francesi: «Ci sono stati anni in cui preferivo i francesi per la loro intelligenza e trovavo gli italiani divertenti ma non interessanti intellettualmente; di recente, invece, ho trovato i francesi freddi di spirito e privi di libertà mentale, mentre gli italiani mi sembravano calorosi e sorprendenti». Sarà un caso, ma nel novembre del 1954 Cage si esibì per la prima volta in Italia, al Centro Culturale Pirelli di Milano, grazie a Luciano Berio: suonò insieme al fido pianista David Tudor, già dedicatario del suo Music of Changes, un programma per pianoforte preparato.