«L’odio è un liquore prezioso», distillato dal nostro «sangue» e dal nostro «sonno», osservava Charles Baudelaire nei Consigli ai giovani scrittori: «Bisogna usarlo con parsimonia!». Forse anche per questo scelse la dimensione intima dei suoi appunti personali per riversare il proprio rancore contro Aurore Dupin, meglio nota con lo pseudonimo maschile di George Sand: una «stupida creatura» – leggiamo fra le carte segrete del Mio cuore messo a nudo – a cui non è possibile pensare senza un «fremito d’orrore». La «donna Sand», infatti, sarebbe stata – secondo lui –  una «bestiona» verbosa, con il classico «stile scorrevole» tanto caro ai borghesi, che per giunta non crede nell’esistenza dell’inferno. Inconcepibile, per Baudelaire, che qualcuno sia riuscito a «incapricciarsi» di quella che graziosamente chiama una simile «latrina».

Per capire le radici di tanto odio, basterà fare un piccolo salto temporale, e ricordare che nel 1876, circa dieci anni dopo le requisitorie di Baudelaire, Sand venne acclamata da Victor Hugo come un «orgoglio del nostro secolo». Straordinaria era la sua produttività: settanta romanzi, cinquanta racconti e ventiquattro drammi, composti a ritmo vertiginoso nell’arco di un quarantennio, che difendevano con ogni mezzo i diritti delle passioni più disperate. Nessun altro romanziere dell’Ottocento, secondo Albert Thibaudet, ha saputo più di lei trasporre in prosa gli ideali dei poeti romantici. E forse pochi altri scrittori sono riusciti a sopportare con la sua stessa nonchalance le pressioni dei nemici.

Racconta Sand nella Storia della mia vita che la sua metamorfosi in «artista», avvenuta nel 1833 subito dopo il successo di Indiana e Lélia, scatenò l’assalto di una tormentosa «inquisizione letteraria», destinata a protrarsi nel tempo. Ad alimentarla non furono le burrascose relazioni della scrittrice con altri artisti – fra i quali De Musset, Mérimée o Chopin – e nemmeno il suo spregiudicato modo di presentarsi in pubblico, abbigliata da uomo e con tanto di sigaro. Il problema era tutto nei suoi romanzi, troppo autobiografici, e soprattutto troppo audaci nel rivendicare le inappagate esigenze delle loro protagoniste. La critica, spiega Sand, volle individuare in passaggi formulati «con estremo candore» una serie di confidenze personali e «oscenità viziose». E solo per dare sfogo a una «rabbia persecutoria», che a tratti ci ricorda l’accanimento dei balordi haters di oggi.

Nelle idee morali ha la stessa profondità di giudizio e la stessa delicatezza di sentimento dei portinai e delle mantenute… È il Diavolo che l’ha persuasa a affidarsi al proprio buon cuore (Charles Baudelaire)

Sostiene André Guyaux, curatore degli scritti intimi di Baudelaire, che l’invettiva privata contro Sand divenne ben presto una pratica diffusa nell’ambiente letterario. Ce lo conferma anche il Diario dei fratelli Goncourt, dove Sand appare più volte nelle vesti di una «sonnambula» che si aggira per i salotti e i ritrovi con la flemma di un «pachiderma» o di un «animale ruminante». Dumas la dipinge come un «mostro» inconsapevole della propria «bonaria ferocia», mentre Gautier assimila la sua «grafomania» a una «funzione dell’organismo» di ascendenza escrementizia. E se non bastasse, alle ingiurie faranno eco più tardi anche Jules Renard, nel suo Diario, e Nietzsche, nei Frammenti postumi, entrambi concordi nell’attribuire a Sand il titolo di «grossa mucca prolifica», insopportabile nel suo variopinto stile «da tappezzeria».

Nella sua autobiografia Sand dichiara di avere  accolto i «furori» delle critiche alternando stati di tristezza o dispiacere a un’impassibile e rassegnata tranquillità. Anche se poi, al momento di interrogarsi sui meccanismi delle sue inimicizie personali, la scrittrice ammetteva di non riuscire davvero a comprendere come si possa calunniare un artista che la pensa in modo diverso dal proprio. L’antipatia letteraria restava per lei un enigma impermeabile a ogni spiegazione.

In realtà, se torniamo a Baudelaire, non è difficile chiarirne almeno in parte il risentimento. Con il successo dei suoi romanzi umanitari e passionali, Sand costituiva una minaccia per il poeta. La sua decisa negazione dell’inferno andava a colpire l’architettura dei Fiori del male, che invece – ricorda Bataille – inneggiano alle gioie di Satana e le predispongono sul percorso vitale dell’uomo come un’indispensabile alternativa ai piaceri del cielo. L’odio, in questa prospettiva, assume una paradossale funzione creatrice: serve a Baudelaire per affermare e imporre la propria identità estetica nei confronti di un’avversaria che si colloca ai suoi antipodi, anche per l’opposta concezione del lavoro e della progettazione dell’opera.

Ciò che…approvo sempre meno nell’esercizio della critica è il tono altero e sprezzante, la ruvidezza delle forme…il sentimento di invidia e vendetta che ne deforma lo scopo (George Sand)

Sand, ha osservato Henry James, era «un’improvvisatrice». Le bastava sedersi a tavolino e guardarsi un po’ attorno per fabbricare capolavori, quasi in modo meccanico, senza piano né premeditazione alcuna. Non appena terminava una storia, ne ricominciava subito un’altra. Poco importa poi se i suoi romanzi, né «esatti» né «verosimili», non contengono personaggi dotati di vita propria e rivelano innumerevoli vizi di forma. «In Madame Sand», ripete James, la narrazione appare sempre «un’invenzione del momento», spontanea come «il canto di un usignolo». Proprio il contrario di quanto accadeva a Baudelaire, che raccomandava, nei suoi Consigli, di riflettere a lungo prima di mettersi a scrivere, e di trascinare il proprio soggetto sempre in giro con sé, persino durante le visite «alla propria amante». Solo attraverso il quotidiano tormento del lavoro, congiunto a sessioni di meticolosa ed estenuante progettazione, l’artista sarebbe riuscito a trovare il proprio stile.

Non è allora così strano che Baudelaire e gli altri detrattori avessero in odio l’eccezionale prolificità di Sand. Come non percepire, dietro l’acrimonia dei loro insulti, anche l’invidia per una rivale che sapeva produrre libri, uno dopo l’altro, a velocità seriale, grazie al dono del suo stile «scorrevole»? E come non legare l’insofferenza per la «donna Sand» alla misoginia letteraria di Baudelaire, che nel Mio cuore messo a nudo bersagliava la natura femminile come un «abominevole» orrore?

A patto però che si riconosca, nel caso di Sand, una singolare forma di misoginia rovesciata. Sand è «un uomo che nessuno può eguagliare», scriveva Balzac nel 1833 a Madame Hanska: «ha un aspetto maschile. Ergo, non è una donna». Rappresenta invece una creatura composita di genere misto – un «mostro», secondo il canone di Dumas – che con il suo talento sfidava i pregiudizi di una consorteria letteraria a dominante patriarcale. Non per nulla Sainte-Beuve – uno dei critici più influenti dell’epoca, a detta di Proust – si era augurato in occasione dell’uscita di Lélia che i romanzi non diventassero cosa da «autrici». Difficile non essere intimiditi dall’«energia» che lo stesso Sainte-Beuve riconosceva tra le qualità dell’anomala narratrice Sand. Qualcuno provò ad addomesticare il fenomeno, ma senza troppo successo.

«Cara maestro»: così Flaubert si rivolge a Sand via lettera a partire dal 1863, e per più di dieci anni, nel vano tentativo di convincerla a rinnovare il suo modo di scrivere romanzi in base alla «dottrina dell’impersonalità». Chi racconta la storia, ripete Flaubert, farebbe meglio a comportarsi come un dio assente, che non commenta la vicenda e non dà opinioni sull’operato dei personaggi in scena. Tutte ingiunzioni alle quali Sand, per parte sua, reagisce con l’ostinata impassibilità che le aveva consentito di sopravvivere agli attacchi lungo l’arco della carriera. Per lei, la «suprema imparzialità» resta «cosa antiumana»: non si può scrivere senza riversare sulla carta il proprio cuore e senza mettersi nella pelle dei propri «tipi».

«Le opposte nature», conclude Sand, «difficilmente si compenetrano». Con l’amico romanziere, che la incalza su questioni di teoria letteraria, Sand parla del proprio lavoro, ma più spesso cerca di sottrarsi al contraddittorio, sviando il discorso sulle sue passeggiate fra i boschi. Finché anche la scrittrice non cede all’insofferenza, e alle pagine segrete del suo diario, in una giornata del 1873, confida di essere «stanca» del suo «caro Flaubert», che vuole sempre impedirle tutto pur di parlare di letteratura: «è ottimo, ma troppo esuberante. Sfianca…».