La notizia dell’acquisto Netflix l’ha comunicata – sapientemente – il 12 settembre, quando cioè Vanessa Kirby ha vinto la Coppa Volpi alla Mostra del cinema di Venezia proprio per Pieces of a Woman – anche se il personaggio del desiderio rivoluzionario che incarna in A World to Come di Mona Fastvold, anch’esso nel concorso veneziano, è assai più affascinante. Certo la multinazionale dello streaming non poteva lasciarsi sfuggire una nuova occasione per arricchire i trofei «cinematografici» della sua collezione – iniziati proprio al Lido col trionfo di Roma, poi anche vincitore agli Oscar – specie se come in questo caso l’attrice premiata è uno dei suoi volti di punta, incarnazione della serie di successo The Crown.

La data di «uscita» Netflix l’ha comunicata più tardi, a sale di nuovo chiuse in mezzo mondo, fissandola per oggi quando Pieces of a Woman arriva direttamente in piattaforma, e al di là della pandemia visto che nel «piano» di uscite la voce «theatrical» quasi non appare- il che è ancora più paradossale pensando all’idea di ripartenza alla base dello scorso festival veneziano.

DEL RESTO: forse Mank di Fincher avrebbe avuto una distribuzione in sala? No, non in Italia almeno, visto che a fine settembre quando è stato annunciato tutti i comunicati non parlavano mai di sala – e lo stesso vale per il nuovo film di Sofia Coppola, On the Rocks, «scivolato» su Apple. A fronte delle sale chiuse a oltranza, almeno qui, e comunque sigillate come i teatri sempre in prima battuta dall’inizio della pandemia, la politica di piattaforme come Netflix o Apple necessita una riflessione: il sostegno dato ai registi che faticavano a trovare interlocutori per i loro progetti nella «normale» produzione hollywoodiana – ricordiamo cosa diceva Cuaron: «Non avrei mai avuto finanziamenti per un film con un’attrice protagonista sconosciuta» – ha permesso una «scalata» nel cinema inarrestabile.

MA SIAMO davvero convinti che era il cinema a interessare Netflix o non piuttosto la possibilità di includere grandi registi del cinema per rafforzare la propria posizione? La sala in sé in un sistema non integrato – quale è invece quello ad esempio di Disney – a cosa serve a Netflix? E se la pandemia ha accelerato le cose la strategia di mettere fuori dalle proprie coordinate la distribuzione in sala era già lì.
Sono questioni con le quali pensando al futuro più immediato di una riapertura è necessario un confronto reale. Ma quale può essere la risposta? Retrospettivamente viene in mente la «guerra» a Netflix del festival di Cannes: avevano ragione anche se escludere i loro film non era ugualmente una risposta. Si potrebbe iniziare a lavorare seriamente sulla norma che prevede le tasse sui territori nazionali per i colossi dello streaming e forse da lì trovare delle ipotesi?

Torniamo a Pieces of a Woman che appunto su Vanessa Kirby è interamente costruito nonostante un cast di rilievo che rimanda al cinema americano indipendente – Shia LaBeouf, Benny Safdie, Ellen Burstyn che ricordiamo in Alice non abita più qui. Il regista è Kornél Mundruczó, molto amato dalla cinefilia contemporanea, che abbandona qui i paesaggi ungheresi di inquietudine dei precedenti film (White Dog, 2014; Una luna chiamata Europa, 2017) per spostarsi in America, «viaggio» mai semplice problematizzato ancora di più dall’origine autobiografica della storia, vissuta dal regista e da sua moglie, Kata Wèber, autrice della sceneggiatura, che come il personaggio di Kirby hanno perso un figlio alla nascita.

I pezzi di donna del titolo sono quelli di Martha (Kirby), che conosciamo nelle prime sequenze incinta mentre va a prendere al lavoro il marito, Sean (LaBeouf). La loro bimba nascerà tra poco e Martha ha deciso di partorire in casa, litigando con la madre (Burstyn) con la quale è scontro su tutto a cominciare dal compagno, un «proletario» che la donna giudica poco consono alla famiglia.

Quando arriva il momento l’ostetrica di fiducia della coppia è impegnata, ne manda un’altra, la cosa li destabilizza, al dolore fisico di Martha e alla goffaggine di Sean si aggiungono l’angoscia, l’incertezza, i dubbi su quella scelta, le domande nel tempo del parto, quasi reale, un lunghissimo piano sequenza di 23 minuti che è anche la parte più riuscita del film, dove il regista appare più libero e sintonizzato con la propria «storia» cinematografica.

Sappiamo già tutto, sappiamo che finirà male eppure rimaniamo lì sospesi tra quei sussulti infiniti nei quali si accavallano pensieri, stati d’animo, il cuore si stringe, e all’impulso di fuggire si avvicenda l’empatia, il sentimento che scopre la fragilità di ogni desiderio, della vita, dell’amore quasi precipitando nel respiro della giovane donna, nelle sue grida, tra le sue mani che disperatamente torcono qualcosa, nel buio verso l’incognita dell’esistere. Il dopo sarà una storia di lutto e di elaborazione raccontata con precisione, molti sottofinali e finali (troppi), in cui assistiamo alla progressiva separazione dei due – il dolore che divide – ai tradimenti, alle bugie, alle distanze di classe negli interni familiari punteggiati di altra autobiografia, e persino con qualche «autocitazione»- un cane arrivato da White Dog.

IL SENSO di «estraneità» del regista poco a suo agio nello skyline di Boston non riesce a trovare una sua corrispondenza nell’interiorità distrutta del suo personaggio, forse troppo imbrigliato dallo script, e di nuovo si arena quando si volge all’America – un dialogo sul grunge imbarazzante col povero marito cresciuto nel mito di Seattle. Nella ricerca di una sua posizione si affida perciò all’attrice, che è ovunque, anche quando non c’è, e a quella scrittura in cui ogni il coinvolgimento trova forma, si raffredda e si fa narrazione perdendo talvolta il cinema di vista.