In occasione dei cinquant’anni dalla morte di Picasso, il Centre Pompidou gli ha dedicato una mostra nella quale le iperboli si sprecano. La prima è quella proposta nel titolo Picasso. Dessiner à l’infini, che vediamo campeggiare a dimensioni gigantesche sulla facciata del museo progettato da Renzo Piano. Un titolo che la realtà mette in stridente contrasto con i cartelli di protesta dei dipendenti del museo, in molti casi lasciati nell’incertezza rispetto al loro futuro: il Beaubourg infatti chiuderà per un periodo molto lungo, addirittura dal 2025 al 2030, in particolare per l’urgenza di liberare le facciate dall’amianto oltre che per ammodernare tutta l’impiantistica. Il museo in queste settimane apre a singhiozzo, a causa degli scioperi: anche l’«infinito» di Picasso è chiamato a fare i conti con la precarietà dei lavoratori della cultura nel post-capitalismo avanzato.

Saliti al sesto piano, e affacciandosi all’immenso open space della Galerie 1, basta un colpo d’occhio per avere la conferma di come l’iperbole contenuta nel titolo abbia però una sua ragion d’essere: la mostra, aperta fino al 15 gennaio, contiene una dismisura, al di là del numero dei disegni e delle opere grafiche esposte, intorno ai mille. L’idea allestitiva è di Jasmin Oezcebi, la designer che nel 2022 aveva firmato gli ambiziosi progetti espositivi in sei grandi musei parigini per i sessant’anni della Yves Saint-Laurent. È un’idea semplice e insieme audace, che restituisce la natura tentacolare non solo della mostra ma soprattutto del suo mattatore, per una volta messo nelle condizioni di presentarsi, per così dire, a briglie sciolte.

La mappa distribuita ai visitatori, quasi un avvertimento di ciò che ci sta per «inghiottire», evidenzia come il tracciato della mostra disegni un vasto vortice attorno a un centro dove sono radunati in spazi semichiusi alcuni nuclei di disegni di particolare importanza storica. È un vortice scandito dal susseguirsi di strutture, a volte «aeree» in quanto fatte scendere dal soffitto; tocca ai colori di fondo di questi monoliti il compito di evidenziare i passaggi tra le diverse (ben cinquanta!) sezioni del percorso. La memoria corre al leggendario allestimento fluido di Lina Bo Bardi per il Museo d’arte di San Paolo: anche in questo caso l’organizzazione è sincronica e non cronologica. Infatti rispetto alla linea temporale in molti casi si è scelta una aggregazione per affinità esecutive (Ligne continue, Dessins réticulés, Papiers collés) o tematiche ( Autoportaits, Crucifixions, Visages); ma ci sono anche aggregazioni di impronta più emotiva (Violences, Le corps en éclats, Dolor). Come spiega la curatrice Anne Lemonnier, «invece di un percorso accademico attraverso le diverse epoche, la mostra offre un percorso aperto, dove i temi si susseguono come tante domande».

Epicentro di questo turbine sono le vetrine dedicate ai Carnets. L’artista alla sua morte ne ha lasciati oltre duecento: qui è esposto l’intero gruppo conservato al Musée Picasso di Parigi, più altri da collezioni spagnole relativi ai primi anni. Ci sono taccuini tascabili, grandi album da disegno, quaderni a spirale e semplici bloc-notes: aperti ovviamente su una singola pagina, ne lasciano intravvedere ciascuno decine di altre, dense di segni e di illuminazioni visive. La sensazione è quella di trovarsi di fronte all’esperienza di una non arginabile insaziabilità rispetto al reale: Picasso è l’artista dominatore che tutti conosciamo, e che anche in questa mostra non si smentisce, ma è anche un artista dominato da una ineluttabile fame di immagini, di forme, di segni.

I Carnets sono i custodi più emblematici di questa sua ruminazione senza sosta, un basso continuo destinato a colmare ogni interstizio temporale tra un progetto e l’altro. Una vetrina contigua a quelle dedicate ai Carnets ci presenta un’inattesa variante di questa attività da dietro le quinte: sono i Dessins-poémes, brevi composizioni poetiche dell’artista, dispiegate su fogli da disegno sempre con una straordinaria capacità di invenzioni calligrafiche. Risale in particolare alla metà degli anni trenta una serie su fogli di papier d’Arches piegati in due: praticamente dei quartini le cui facciate interne sono dedicate ai testi, mentre all’esterno presentano delle trasposizioni fittamente disegnate, che scorrono nella vetrina come frame di un imprevedibile video d’animazione.

Pablo Picasso, «Le Taureau», 1945, incisione, Musée national Picasso-Paris, Dation Pablo Picasso, 1979 © Succession Picasso 2023

Tra i Carnets uno spazio a se stante è stato destinato al gruppo di sedici taccuini nei quali Picasso tra 1906 e 1907 aveva messo a fuoco l’idea di quel quadro «senza ritorno» per l’arte del Novecento che è Les demoiselles d’Avignon. Un cantiere di drammatica e fin brutale intensità, documentato dalle ombre rosse che marchiano i corpi in tanti fogli con gouaches o acquarelli. Come aveva testimoniato in presa diretta André Salmon, poeta e amico, «Picasso aveva rovesciato le tele e gettato via i pennelli. Per molti giorni e molte notti disegnava concretizzando l’astratto e riducendo il concreto all’essenziale».

Una volta risucchiati nel vortice di questa mostra è davvero difficile tenere conto delle continue sollecitazioni e sorprese che ci incalzano in un continuum senza pause: come visitatori siamo così chiamati a sperimentare una situazione di inedita e ripetuta contiguità con i processi creativi. Non è una banale situazione di immersività, ma piuttosto un ritrovarsi a «ballare con Picasso», sperimentandone i ritmi, i cambi di passo, le spericolatezze e anche le cadute. Del resto è paradigmatico (e davvero felice) uno schizzo progettuale di Jasmin Oezcebi pubblicato in catalogo: la sequenza delle sezioni è scandita, appunto, come si trattasse di passi di danza…

Quando nel 1956 Georges Clouzot aveva lanciato all’artista la proposta di un film sostanzialmente senza parole dove si potesse assistere in presa diretta alla genesi di sue opere, Picasso era stato al gioco con convinzione. Insieme al regista aveva messo a punto un dispositivo ad hoc, un telaio sul quale venivano montati fogli di carta da giornale bianca che l’artista avrebbe dipinto usando dei nuovi pennarelli prodotti negli Stati Uniti. Il segno grasso passava sul retro dei fogli, permettendo la documentazione video del formarsi dell’opera senza vedere l’autore. Nell’arco dei novanta minuti del film, girato a Nizza, si assiste alla realizzazione di trentanove disegni, che sono stati restaurati e rimontati su identici telai bifacciali. Tre di questi sono esposti al Beaubourg. Di quel film, così dichiaratamente democratico, l’unica cosa che non convince è il titolo, Mystère Picasso, scelto forse per puntare su una formula a effetto. In realtà Picasso gioca come sempre, ma qui più che mai, allo scoperto: c’è una palese idiosincrasia tra lui e la categoria di «mistero».

La mostra parigina ne è una lampante dimostrazione grazie alla liberalità con cui la macchina creativa dell’artista si presta a spiazzare ma anche a lasciarsi disserrare. Siamo di fronte alla proposta di un Picasso a 360 gradi. Un Picasso in azione che trascina il visitatore da una scorribanda a un’altra, come accade ad esempio nella sezione chiamata Ligne continue, dove sono stati raccolti i disegni realizzati senza mai staccare la matita dalla carta: prove di un’abilità acrobatica. A questa sezione sono aggregati i quattordici ritratti a matita di Michel Leiris, eseguiti tutti in un giorno, il 28 aprile 1963. Il critico francese, a cui Picasso era molto legato anche per i suoi studi da etnologo sulle culture africane, aveva coniato per lui la definizione di «genio senza piedistallo». Un genio che, come si sperimenta in questa mostra, nonostante la sua natura iperbolica, dà sempre la sensazione di essere a portata di mano.