Le piazze piuttosto che le petizioni on line. Le strade di Minneapolis piuttosto che le inutili mobilitazioni col mouse. Che oltretutto arricchiscono chi con quelle strade non c’entra nulla.
È di pochi giorni fa una “lettera aperta” firmata da un numero enorme di ex dipendenti, di change.org. Più di centrotrenta nomi, molti con ruoli apicali.
Sì, change.org, nome che tutti abbiamo imparato a conoscere, visto che dall’omonima piattaforma quasi quotidianamente ci arrivano messaggi o e-mail per invitarci a firmare questa o quella richiesta. Al governo, ai partiti, all’Onu, al consiglio di quartiere, alla presidenza europea.
Dopo l’assassinio di George Floyd, negli States – e nel mondo – è stato un fiorire di petizioni. Solo fra i cittadini americani, sono state raccolte oltre diciassette milioni di firme. Molte in calce alla richiesta di far diventare Floyd “eroe nazionale”. Spesso, queste petizioni sono accompagnate da un link a fondo pagina: fai una donazione a change.org.
Soldi che però non finiscono nelle tasche di chi ha promosso le petizioni, né tantomeno arrivano nella disponibilità dei soggetti al centro delle campagne. Soldi, insomma, che non finiranno né a sostegno della famiglia Floyd, né alle comunità dei neri. Resteranno nella società che gestisce il sito.
Ed è proprio questo che chiede la lettera aperta: per una volta almeno di redistribuire un po’ dei dollari e dei soldi raccolti.
I guadagni di change.org (che nonostante la desinenza del suo indirizzo web non ha nulla di “non profit” ma è semplicemente un’azienda classificata come “B-Corporation”, che cioè dovrebbe avere “standard social”) sono da tempo oggetto di polemiche. Che comunque non ne hanno scalfito la popolarità visto che solo in Italia hanno un “pubblico” di undici milioni di persone.
Ci sono state polemiche su quei guadagni, e denunce che anni fa hanno costretto la società (creata da un americano, 244 persone dello staff, solo dodici neri, come c’è scritto nella lettera aperta) a fare marcia indietro, quando s’è scoperto che chi firmava una petizione doveva lasciare nome, cognome ed altri dati.
Elenchi che poi la società girava a società interessate a “campagne mirate”. Una classica profilazione.
Quella pratica dovrebbe essere finita – così assicurano – ma al gruppo soldi ne entrano lo stesso. Attraverso le donazioni, che molti fanno in buona fede. Convinti che potrebbero servire “alle cause”, non leggendo la microscopica causale, dove c’è scritto – per chi ha la pazienza di arrivarci – che i soldi servono a garantire il funzionamento di change.org. Stipendi ai dipendenti, pubblicità e altro.
Gli ex dirigenti della società – realisti, da buoni professionisti americani – si dicono convinti che comunque change.org debba far entrare nelle sue casse un po’ di denaro: “è legittimo”, scrivono. Non questa volta, però. Meglio: non del tutto questa volta, dove le centinaia di migliaia dollari raccolti sotto le petizioni per Floyd potrebbero essere spesi – almeno un po’ – davvero per il sociale.
Non deve accadere, insomma, quel che è successo per quei milioni di dollari raccolti in calce alle petizioni per Breonna Taylor e Ahmaud Arbery.
Fino ad ora, change.org non ha risposto alla lettera aperta. E probabilmente i 130 neanche se l’aspettano. Sanno che il loro testo conta zero rispetto alla potenza mediatica del loro interlocutore. Conta zero. Esattamente come le petizioni on line. A Minneapolis l’hanno capito.
La direttrice di change.org Italia ci scrive
Buongiorno,