«Sto attualmente attraversando» una «crisi di abbondanza», scriveva Fernando Pessoa nel 1913 al poeta Mário Beirão, per segnalare uno stato di straordinaria «velocità creativa». Dalla sua «anima», per tutto il ventennio successivo, sarebbe poi scaturita un’intera galassia letteraria: non soltanto versi e prose di varia natura, ma anche alcuni brevi atti unici per il teatro – quattordici in tutto – che Pessoa chiama «drammi statici».

Li troviamo oggi riuniti nella raccolta Teatro statico (a cura di Andrea Ragusa, Quodlibet, pp. 256, € 20,00) che affianca alla già nota pièce Il marinaio gli altri tredici drammi, frammentari o incompiuti, per offrirci la visione esaustiva di una singolare sperimentazione teatrale.

A differenza di quanto accade nel teatro ordinario, avverte Pessoa nei suoi appunti, il dramma statico non aspira a rappresentare un intreccio, ma vuole piuttosto rivelare «anime» in stato di «inerzia». Inutile dunque aspettarsi la benché minima parvenza di azione. Sul palcoscenico non fanno che avvicendarsi figure inconsistenti come ombre, impegnate soltanto a disquisire sulla vacuità delle loro «avventure interiori». Spesso ci ritroviamo ad ascoltare il diverbio delle due metà – «maschile» e «femminile» – di una stessa anima che battibeccano sull’incapacità di amarsi e di vivere in comunione di spirito. Ma anche quando Pessoa fa intervenire personaggi ancorati a una storia – come Salomè, Siddharta o Gesù Cristo – la sceneggiatura riproduce sempre la stessa angosciosa situazione di impasse conoscitiva.

Nei drammi statici Pessoa chiama in scena un repertorio di anime dolenti che si arrovellano su sé stesse solo per andare a sbattere contro il muro della propria ignoranza, come «sonnambuli» in una «stanza senza porta». È un teatro dell’inquietudine, dove la conversazione conduce a scoprire un vuoto abisso interiore – un «pozzo» – che si spalanca non appena ci si interroga sull’infinita complessità del tutto. Il dubbio, il tedio e lo sgomento per la propria inettitudine costituiscono le reazioni pressoché obbligate dell’anima di fronte a un enigma chiamato vita.

Non è allora un caso se fra i possibili predecessori del dramma statico è stato indicato il simbolista Maurice Maeterlinck, che nel suo saggio sul Tragico quotidiano aveva auspicato un teatro capace di far vedere l’immensità di un’anima «in sé stessa», senza bisogno di preoccuparsi dell’azione. Non è dagli atti, specificava Maeterlinck, bensì dalle parole che si ricavano le sconcertanti verità nascoste nel solo «fatto di esistere». Anche per questo, nell’Intrusa e nei Ciechi, il drammaturgo aveva allestito situazioni dove i personaggi si limitano a reagire, con i loro dialoghi, ad eventi traumatici già accaduti prima che si alzi il sipario. Quando però si era trattato di evocare le atmosfere sinistre di Pelléas e Mélisande, Maeterlinck si era servito di un linguaggio scenico dalla semplicità quasi esasperante. Tutto il contrario di Pessoa, determinato invece a puntare su una nebulosa complessità espressiva.

Le anime del Marinaio, notava Tabucchi, parlano una lingua «scarsamente recitabile», estranea alla naturalezza della conversazione quotidiana. L’osservazione vale anche per gli altri drammi della raccolta, dove gli interlocutori comunicano per sentenze oracolari e misteriosi aforismi, destinati a contraddirsi e a generare paradossi sulla realtà rappresentata. Non è raro che le figure in scena si interroghino sulla legittimità o sul funzionamento dei racconti che hanno appena finito di pronunciare. Chi prende la parola, nei drammi statici, acquisisce i poteri di una tormentata divinità. Il discorso teatrale gli permette di costruire universi soltanto precari, labili come sogni, che possono essere rimessi in discussione o smantellati nel giro di una battuta.

Niente, sugli scenari di Pessoa, è dunque stabilito una volta per tutte: «solo quello che non è mai stato reale», ci informa il protagonista della Morte del principe, «esiste davvero». E se da un lato il sogno – più potente, piacevole e «vero» della realtà – può costituire un rifugio dalle angosce della vita, dall’altra l’attività onirica, imparentata con il canto delle sirene e la falsità delle fantasticherie, si prospetta come una maledizione sempre in agguato, pronta a colpire l’integrità di quanto si è svolto o si sta svolgendo sotto gli occhi dello spettatore.

Può allora accadere che la Salomè di Pessoa si accorga di aver scambiato con un sogno la storia della decapitazione di Giovanni Battista. La «menzogna» del suo precedente monologo viene tutt’a un tratto ribaltata in «verità». Anche se poi «qualsiasi verità» proferita sul palcoscenico – precisa una voce «fuori dai mondi» nel dialogo Sakyamuni – resta pur sempre «un’illusione», in un insistente cortocircuito che sembra voler riprendere e portare alle estreme conseguenze un copione shakespeariano.

Anche le ombre teatrali di Pessoa, come gli spiriti evocati dall’arte illusionistica di Prospero nella Tempesta, sono fatte della stessa materia dei sogni e appartengono a un «vasto globo», che minaccia di dissolversi in una «scena senza sostanza». Ciascuno di noi – ripete il Principe morente nel suo delirio – ha una sua parte nel libro dell’universo, composto da mano superiore in un alfabeto arcano. Mentre il capitolo dei nostri ricordi individuali assume l’aspetto di una pura ipotesi, effimera e sempre revocabile, il racconto di «ciò che succede» nel presente può tramutarsi in una sensazione estranea: è un sogno, ma fatto da qualcun altro. L’identità personale, in una simile prospettiva, si sbriciola e si moltiplica, fino a trasformarsi in un rompicapo: «Io», dichiara una voce del Dialogo nel giardino del palazzo, «sono una frase divina di cui mi sfugge il senso».

Col risultato che le anime del teatro statico finiscono per apparirci come semplici controfigure, condannate a declamare la filosofia del poeta loro creatore. Impossibile assistere allo spettacolo senza avvertire, quasi ad ogni scambio di battute, il timbro caratteristico della voce di Pessoa o dei suoi eteronimi Álvaro de Campos e Bernardo Soares, tutti intenti a predicare la disintegrazione e lo smarrimento dell’essere. I drammi statici, di conseguenza, non possono che prospettarsi come la prova generale di un più articolato dramma dell’inquietudine, che sarà recitato altrove, con attori e mezzi diversi, sul palcoscenico delle poesie. Ma questo non significa che la dimensione teatrale ricopra un ruolo secondario nell’universo dello scrittore.

«Il punto centrale della mia personalità di artista», confidava Pessoa nel 1931 al suo biografo João Gaspar Simões, «è che sono un poeta drammatico», capace di fondere lirica e teatro: munito di questa chiave, il critico può aprire tutte le «serrature della mia espressione». E può persino arrivare a comprendere paradossi illusionistici che sembrano rasentare la follia letteraria: «esigo che si capisca che sono folle», raccomandava Pessoa, «ma solo nel senso in cui lo era Shakespeare».