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Persone, come Lynzy Billing

Persone, come Lynzy Billing

Festival di Emergency La giornalista e fotografa racconta la sua esperienza di documentazione dell'attività Emergency in Afghanistan

Pubblicato 28 giorni faEdizione del 7 settembre 2024

Legami ed unioni tra le persone, creazione e identità di una comunità e capacità della stessa di generare cambiamento. Partendo ed arrivando a questi concetti, Emergency festeggia le sue tre decadi a Reggio Emilia, attraverso un festival multimediale che nel titolo, «Le Persone», non lascia adito a dubbi, ribadendo la centralità dell’essere umano come elemento fondante di una cultura collettiva plurale. Fino a domenica otto settembre inclusa, diritti, doveri, responsabilità ed empatia si rintracciano in diversi luoghi nel centro storico della città emiliana in base al format d’appartenenza.

In quello nominato «Luci sulle persone», presso il Teatro di San Prospero, dedicato a cortometraggi, film e documentari, poche ore fa è stato proiettato Long Nights, video approfondimento imperniato sulle attività sanitarie di Emergency in Afghanistan firmato dalla giornalista d’inchiesta e fotografa Lynzy Billing.

L’autrice, ben nota a livello internazionale come testimoniano i riconoscimenti avuti da Anthony Shadid Award for Journalism Ethics e National Magazine Awards, porta con sé una vicenda personale e professionale che diviene una ulteriore narrazione. «Mio padre era afghano e mia madre pakistana, ma dopo che entrambi furono uccisi in Afghanistan nei primi anni ’90, fui adottata da una famiglia britannica e crebbi a Gerusalemme prima di andare nel Regno Unito per studiare all’università. Iniziai a lavorare come photo editor a Londra nel 2017. In quei momenti compresi che per lavoro volevo raccontare storie. Così mi sono licenziata, sono diventata freelance e mi sono trasferita nelle Filippine per scrivere cosa stava accadendo. Era l’apice della guerra alla droga del presidente e nei tre anni trascorsi lì, ho passato la maggior parte del tempo fuori casa durante la notte per documentare le esecuzioni extragiudiziali durante la guerra alla droga. Ogni sera, aspettavo in un’agenzia di pompe funebri fino a quando non arrivava una chiamata che segnalava il ritrovamento di un cadavere e poi correvo con la polizia sulla scena».

Il frutto di quel lavoro, realizzato assieme alla giornalista locale Regine Cabato, divenne nel 2019 un’inchiesta di qualità intitolata This Is Manila, che la mise in luce grazie alla pubblicazione del Washington Post. Ma l’orizzonte da raggiungere, era un altro. «Nel 2019 tornai in Afghanistan per un viaggio personale, al fine di indagare sulla morte della mia famiglia avvenuta circa trent’anni prima. Il viaggio individuale si è trasformato in un’indagine sulle Zero Unit, gli squadroni speciali delle forze afghane finanziati, addestrati e armati dalla Cia per colpire obiettivi ritenuti una minaccia per gli Stati Uniti. I soldati afghani non erano soli nei raid: spesso si univano a loro anche quelli delle forze speciali statunitensi che lavoravano con la Cia. Nel corso di quasi quattro anni ho cercato di rintracciare i civili morti imputabili ad una delle Zero Unit. Per comprenderne le operazioni e le relative conseguenze, nonché il ruolo della Cia in fase di addestramento, finanziamento e direzione, ho registrato oltre trecentocinquanta interviste e viaggiato per centinaia di miglia nella provincia di Nangarhar, Afghanistan orientale, con l’idea di catalogare i raid, collaborando con un patologo forense all’identificazione dei morti. Ho parlato con centinaia di sopravvissuti, testimoni e familiari rimasti traumatizzati dai raid che hanno ucciso i loro cari senza spiegazioni». Il reportage della giornalista ha riguardato, oltre le vittime, anche i carnefici: «Per anni ho incontrato i soldati delle Zero Unit per capire come si sentivano. In più di trenta siti di raid che ho visitato, ho raccolto prove e testimonianze che dimostravano che le incursioni si svolgevano seguendo informazioni di intelligence disastrosamente errate, causando la morte di decine di civili senza alcun legame con i talebani o gruppi di insorti.

Ho calcolato che in quattro anni, durante centosette raid di una sola Zero Unit, sono stati uccisi almeno quattrocentocinquantadue civili. Quasi certamente il conteggio è insufficiente. Nessuno è stato ritenuto responsabile: né il governo afghano, né quello americano e men che mai la Cia. Ora gli Stati Uniti hanno lasciato l’Afghanistan, ma senza un vero resoconto di ciò che è accaduto. C’è il rischio che utilizzino le stesse tattiche fallimentari in un nuovo paese contro una nuova minaccia e innumerevoli famiglie in altri stati probabilmente ne paghino il prezzo».

Quanto compiuto si è tradotto in un reportage chiamato The Night Raids, a cui ha fatto seguito il cortometraggio The Night Doctrine, lavoro che ha riscosso molteplici consensi: «È stato presentato in anteprima al Tribeca Film Festival, di New York, nel giugno 2023 e da quel momento in altri quindici festival durante l’anno. In fase di realizzazione ho capito che volevo iniziare a fare film, andando oltre i cortometraggi realizzati in passato per varie ong. Dal 2019, ho fatto reportage in Afghanistan e Iraq, paesi che sono stati inondati di corrispondenti stranieri durante la guerra e in seguito ampiamente dimenticati da reporter e media internazionali. Non dovrebbe accadere. Continuo a fare reportage da entrambi, nella speranza che anche altri li tengano d’occhio. Inoltre bisogna ricordare che alcune delle storie più importanti emergono molto tempo dopo la fine delle guerre e, naturalmente, c’è ancora bisogno di lottare per cercare responsabilità. Lavoro sempre da sola, non ho un team di sicurezza o fixer sul campo. Credo che questo aiuti il racconto: essere in grado di stare seduto con qualcuno per ore e ascoltare la sua storia, che parli senza la pressione di persone attorno è un grande vantaggio.

Detto questo, il mio lavoro non sarebbe possibile senza la gentilezza degli estranei, delle famiglie che mi aprono le loro case e degli autisti che mi tengono al sicuro». Inevitabile, tra vissuto familiare e lavoro, l’incontro con Emergency e le relative riprese svolte: «Long Night è stato girato in due settimane lo scorso luglio. Ho viaggiato nelle province di Kabul, Helmand e Panjshir per documentare i tre ospedali di Emergency. Chiunque sia stato in Afghanistan conosce l’importanza di questi chirurghi e cosa hanno fatto per il popolo afghano. In decenni di esperienza nel trattamento dei feriti di guerra, hanno visto di tutto. Hanno passato il loro tempo rimanendo ventiquattro ore di fila in sala operatoria per eseguire interventi chirurgici incredibilmente complicati uno dopo l’altro. Hanno curato i loro familiari e colleghi, alcuni dei quali non ce l’hanno fatta. Volevo realizzare un documentario che rendesse omaggio a questi dottori che hanno curato oltre otto milioni e mezzo di pazienti e salvato migliaia di vite durante la guerra e continuano a farlo. Ad oggi, i loro centri chirurgici in Afghanistan sono più affollati che mai, perché le prove della guerra rimangono e gli ospedali continuano a curare pazienti feriti da residuati bellici esplosivi quasi ogni giorno. E spesso, sono bambini».

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