Salvini fa l’ottimista: «Sono solo due bozze. Troveremo una soluzione positiva». Parla di pensioni e legge di bilancio, materia che in realtà lo rende furibondo. Lo si può capire. Elsa Fornero l’arcinemica canta vittoria: «È un progressivo ritorno alla riforma del 2011 e non poteva essere diversamente». Per certi versi, anzi, le regole fissate dalla manovra firmata dal leghisa Giorgetti, quota 104 ma con limitazioni e paletti tali da rendere l’accesso impervio, sono ancora più rigide di quelle della ex ministra. «Questa quota 104 non è sostenibile», sbotta il capo leghista con i suoi in privato, più sincero che di fronte ai microfoni.

La Lega chiede di rivedere quelle norme in modo significativo. Ieri un primo risultato lo ha ottenuto, però modesto. Per andare in pensione in anticipo, a 64 invece che a 67 anni, quelli che non hanno contributi prima del 1996 e quindi sono già del tutto immersi nel sistema contributivo dovevano, nella bozza già circolata, aver maturato un importo di pensione pari a 3,3 volte l’assegno sociale, che è di 503 euro.

La soglia è stata un po’ abbassata ieri. Ora gli uomini devono arrivare solo a un importo di 2,8 volte superiore all’assegno sociale, in soldoni 1.408 euro. Per le donne il tetto scende di qualche decimale ma in misura diversa a seconda di quanti figli si hanno. Potrebbe inoltre essere posticipato al 2027 l’adeguamento in base alle speranze di vita, che la bozza al momento in vigore fissa invece alla fine del prossimo anno.

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Sono passi nella direzione reclamata da Salvini, però da formica: non basteranno a calmare il leghista furioso, che infatti ieri citava come ancora provvisoria anche questa seconda bozza e che boccia anche la possibilità di «incursioni» dell’Agenzia delle entrare nei conti correnti di chi non paga le cartelle (che peraltro la premier smentisce).

Va da sé che se il vicepremier leghista punta i piedi quello azzurro non può essere da meno. Anche Fi reclama modifiche. Torna a insistere per l’aumento delle pensioni minime, se non a 700 euro almeno da 600 a 650. Ma soprattutto si scaglia contro la cedolare secca e contro l’aumento della tassa sugli affitti brevi, che vuole quanto meno alleggerire: non più dal 21 al 26% ma solo al 23%. Insomma la strada di una manovra poverissima sarà accidentata di qui alla presentazione in aula, al dibattito che inizierà a fine novembre ma anche al maxiemendamento, che certamente arriverà all’ultimo momento e come sempre implicherà modifiche profonde.

La trattativa, soprattutto quella con Salvini, si articolerà però su due tavoli, perché Giorgia Meloni deve sciogliere un nodo molto più aggrovigliato di quello della manovra e proprio la posizione della Lega è uno degli elementi che rendono il rebus quasi irresolubile: la ratifica della riforma del Mes. Ieri al Consiglio europeo di Bruxelles, in tutt’altre guerre affaccendato, non se ne è parlato. Oggi, all’Eurosummit, Meloni non se la caverà altrettanto facilmente.

Il presidente dell’Eurogruppo Donohoe chiederà con toni piuttosto ultimativi una parola chiara sulla decisione italiana, quella firma mancante che da sola basta a bloccare tutto. Lo ha già fatto due giorni fa, con la lettera al presidente del Consiglio europeo Michel. Nel gergo paludato della diplomazia europea, mettere nero su bianco che «attendiamo con impazienza» l’esito dell’iter parlamentare in Italia è una frase al limite dell’ultimatum. A viva voce, oggi a Bruxelles, sarà peggio.

L’Italia si è affrettata a calendarizzare il dibattito dal 20 al 24 novemebre alla Camera, essendosi il Senato già pronunciato a favore della ratifica nella scorsa legislatura. Il guaio è che Donohoe, almeno nella lettera, offre alla premier italiana davvero pochissimo. Una frasetta che più vaga non si può sulla riforma come «ulteriore passo avanti» verso l’unione bancaria, un’altra, senza alcun vero impegno, sulla possibilità di ridiscutere «ruolo e strumenti del Mes». Naturalmente a ratifica firmata.

Per Meloni accontentarsi non sarà probabilmente possibile e infatti oggi non dirà quella parola definitiva che l’Eurogruppo auspica e reclama. La premier deve però affrontare una difficoltà in più: per ora la Lega è decisa a non votare la ratifica, forse limitandosi a non partecipare al voto. Il sì alla riforma passerebbe lo stesso con il voto del Pd ma per la premier votare una riforma che ha sempre avversato con il Pd ma contro la Lega (e i 5S), spaccando la maggioranza, sarebbe una disfatta. Dunque per un mese il braccio di ferro e il gioco degli scambi procederanno in parallelo: sulla manovra e sul Mes.