Domenica Suhail Shaheen, portavoce talebano, ha detto a This Week in Asia che «La Cina, il nostro grande Paese vicino, può avere un ruolo costruttivo e positivo nella ricostruzione dell’Afghanistan e anche nello sviluppo economico e nella prosperità del popolo afgano».

E che «i talebani sono impegnati a non consentire ai gruppi militanti di utilizzare l’Afghanistan come base per attacchi». Si tratta di dichiarazioni che confermano il do ut des talebano nei confronti di Pechino: richiesta di sostegno economico in cambio di sicurezza, con riferimento esplicito allo Xinjiang vista la puntualizzazione secondo la quale i talebani avrebbero «dato un messaggio chiaro a tutti: nessuno può usare il territorio afghano contro i paesi vicini e altri».

Queste dichiarazioni fanno il paio con quelle di Wang Yi, ministro degli esteri e di Yue Xiaoyong. l’inviato speciale della Cina per gli affari afghani. Nonostante i forti tentennamenti cinesi, aumentati dopo l’attentato all’aeroporto di Kabul, qualcosa si sta muovendo. Wang Yi nel week end ha detto al segretario di Stato americano Antony Blinken che, in sostanza, con i talebani bisogna dialogare e che bisogna coordinarsi contro il terrorismo. E domenica Yue Xiaoyong è andato anche oltre. Al sito guancha.cn ha detto che i talebani «sono amichevoli, gli piace scambiare idee e comunicare con gli altri».

Al momento Pechino starebbe anche valutando l’ipotesi di riconoscimento del nuovo governo talebano, appoggiandosi però al Pakistan con cui la Cina condivide la necessità di un esecutivo inclusivo da parte dei nuovi padroni dell’Afghanistan; una richiesta esplicita consegnata a Kabul da parte di Islamabad. Nonostante queste aperture, rimangono ancora parecchie incognite. Intanto ci sono le preoccupazioni di Pechino. Sempre sul sito guancha.com Pan Guang, un esponente dell’Ufficio nazionale antiterrorismo cinese, ha sostenuto che i talebani non sono affatto in grado di garantire il controllo del territorio. Anche l’esperto cinese descrive la galassia di gruppi più o meno numerosi che danno l’impressione di poter bucare la sicurezza talebana.

Nei giorni precedenti diversi analisti cinesi avevano più o meno sostenuto la stessa tesi: è pur vero che la Cina avrebbe notevoli interessi economici sul territorio afghano, ma la questione legata alla sicurezza, specie quella del confine con lo Xinjiang, è la priorità numero uno. Come sottolineato da Amanda Hsiao di International Crisis Group, Pechino vede nella nuova situazione sia un’opportunità sia un rischio: «Da un lato, la Cina è sempre stata a disagio per la presenza di basi militari statunitensi così vicine ai suoi confini e il ritiro offre la possibilità di esercitare più liberamente la sua influenza in Asia centrale.

D’altra parte, la Cina è preoccupata non solo per il vuoto di sicurezza regionale» ma anche dal fatto che adesso gli Usa avranno ancora più attenzione nell’area asiatica che la Cina considera il proprio cortile di casa. Infine c’è un fatto legato all’immaginario: l’Afghanistan come «tomba degli imperi» è un argomento molto discusso sui media cinesi; a questo proposito su The Diplomat si è ricordata la perdita di parte del territorio che oggi corrisponde all’Afghanistan della dinastia Tang (una delle più potenti e «globali» della storia cinese tra il 600 e il 900 d.C.) associandola al tracollo dell’impero: «Dopo aver perso l’Afghanistan, la Cina si è ritrovata in uno stato di debolezza per più di mille anni, passando da un impero globale a un paese che doveva costantemente difendersi dalle invasioni».

E non è certo la fine che Xi ha in mente per il paese: contemporaneamente alla crisi afghana, infatti, Pechino sta promuovendo una serie di riforme che cambieranno per sempre il volto della Cina. In attesa che parta il rush finale per il 2022, l’anno del ventesimo congresso del Pcc.