Un nuovo attore di grande peso scende in campo in Libia nel bel mezzo di uno stallo quasi totale della guerra che sta «rapidamente deteriorando le condizioni di vita dei libici e soprattutto dei più vulnerabili, i migranti» – come ha riferito all’Onu l’inviato Ghassam Salamé – dopo ormai da cinque mesi e più di combattimenti con oltre mille morti, cento civili.

Si tratta della Cina, il più grande importatore di petrolio al mondo e con interessi crescenti in Africa, che nell’ultima riunione del Consiglio di Sicurezza a New York sul dossier libico, mercoledì scorso, si è fatta avanti per «contribuire al processo di risoluzione politica del conflitto e alla stabilizzazione del Paese» a cominciare da un rispetto rigido dell’embargo di armi.

Salamé finora si è rivolto al G7 e alle potenze regionali per chiedere appoggio al suo piano di pace per la Libia: cessate il fuoco lungo, conferenza internazionale e quindi degli attori nazionali . L’appoggio più forte gli arriva invece da Pechino, che non fa parte del G7, attraverso il numero due all’Onu, Wu Haitao.

Nel piatto della pace la Cina è pronta a mettere non solo un aumento delle importazioni di petrolio – prospettato in 2,1 miliardi di barili entro il 2023 – ma anche investimenti e posti di lavoro (anche per migranti ndr) per ristrutturare e modernizzare le infrastrutture e i trasporti libici, attualmente al collasso.

In era Gheddafi la Cina aveva in ballo 20 miliardi di dollari di progetti con 75 società cinesi coinvolte e 36 mila dipendenti, perciò si astenne sulla risoluzione 1973 che spianò la strada all’intervento Nato nel 2011. Successivamente e fino all’estate dell’anno scorso Pechino è sembrata più sbilanciata verso il governo di Serraj.

Ora potrebbe essere un partner dell’Ue e dell’Italia in un’ottica multilaterale.