«La memoria, non sappiamo esattamente cosa sia. Ma sappiamo che tutto cambia, compresi i ricordi». Così Richard Gere presenta alla stampa Oh, Canada, il film con cui è tornato a lavorare con Paul Schrader ben 44 anni dopo American Gigolò. «Non sono cambiato per niente da allora», scherza l’attore, che nel film appare ulteriormente invecchiato – rispetto ai suoi 74 anni portati benissimo – per interpretare il documentarista Leonard Fife in punto di morte. «Poco tempo fa, è morto mio padre. Vedere come la sua memoria si spostava tra diversi piani di coscienza, superando la relazione causa-effetto, mi ha colpito molto. E mi ha colpito vedere quanto assomiglierò a lui se arriverò alla sua età». È un ulteriore gioco di specchi rispetto a quello già incarnato da Russell Banks, autore del libro da cui è tratto il film, che come il personaggio da lui concepito si è ammalato di cancro ed è venuto a mancare.

È QUINDI una riflessione sul tempo e sul percorso fatto quella che emerge dalle parole di Schrader: «Io, Coppola e Lucas, che in questi giorni sono a Cannes, siamo la prima generazione di registi che usciva dalle scuole di cinema. Non sapevamo come sarebbe andata sul lungo periodo, ma sapevamo che era un grande cambiamento. Nei prossimi anni forse le sale scompariranno come i jazz club, è una tendenza che non possiamo combattere. L’intero concetto di cinema si sta ridefinendo».

Il regista parla poi del contesto storico in cui il film è ambientato, e il clima che viviamo spinge ulteriormente i giornalisti a porre domande sul tema della guerra. «In quegli anni, negli Stati uniti, tutti abbiamo dovuto fare una scelta in merito al Vietnam: io sono stato riformato per motivi fisici, altri, come Oliver Stone, ci hanno vinto un Oscar. Rispetto all’Ucraina non penso si possano fare paragoni: quella del ’68 da molti non era percepita come una guerra giusta, e gli Stati uniti non erano stati aggrediti». Più ampio il ragionamento di Gere – buddhista da diversi anni -: «Al di là se una guerra sia giusta o meno, si tratta sempre di chiedersi: posso prendere delle armi? Posso uccidere un’altra persona?».

Viene anche chiesto di dare dei consigli ai giovani registi di Paesi che, come la Georgia, lottano per la libertà di espressione. «Il cinema sovietico ha partorito opere fantastiche in parte grazie alla repressione: i registi dovevano trovare modi più sottili per esprimesi. Ottenere i fondi è difficile, lo so, ma è la stessa cosa che dico ai miei amici palestinesi: l’importante è avere qualcosa da dire, trovare la propria voce. E dal Medio oriente stanno uscendo dei film bellissimi» ha affermato Gere.
È intervenuto poi anche il produttore David Gonzales, ricordando le difficoltà di girare durante lo sciopero degli attori dello scorso anno. E rivelando di essere già a lavoro su un nuovo film con Schrader: un noir su un’ossessione sessuale. La fine, per ora, è solo sullo schermo.