Davanti al Comitato per il digitale, la cultura e i media del parlamento inglese Sandy Parakilas, responsabile Facebook per il controllo delle violazioni dei dati da parte di sviluppatori di software terzi tra il 2011 e il 2012 e una delle fonti del «Facebookgate», ieri ha detto che i dirigenti dell’azienda erano stati messi al corrente della vulnerabilità della piattaforma. Il problema è questo: una volta che i dati lasciano i server di Facebook verso le «app» esterne non c’è alcun controllo. Almeno nel 2015, l’anno in cui è iniziato lo scandalo che ha messo in crisi il social network celebrato come una reliquia contemporanea. Parakilas ha detto che l’azienda dava l’impressione di temere di essere ritenuta responsabile nel caso in cui un’indagine avesse dimostrato una violazione anche da parte di terzi. In questo caso avrebbe sostenuto di essere «solo» una piattaforma e di non essere responsabile per l’uso dei dati che è stato fatto dalla Cambridge Analytica nella campagna presidenziale di Donald Trump nel 2016. La deputata laburista Julie Elliott ha chiesto a Parakilas se pensa che Facebook capisca l’enormità del problema per le sorti della democrazia. «No – ha risposto – altrimenti avrebbero agito due anni e mezzo fa più velocemente».

LA MATERIA È INCANDESCENTE e riguarda la natura stessa del capitalismo digitale, almeno quello fino ad oggi percepito: piattaforme che servono a intrattenersi, e non a produrre profitti colossali. Se fosse appurata una violazione di dati, la Federal Trade Commission americana può imporre una multa fino a 40 mila dollari per violazione. Il totale da pagare sarebbe di oltre 2 miliardi di dollari. Il problema non è solo questo, ma la vendita di dati – lavorati e ricombinati da altre aziende che «micro-targettizzano» le persone per la pubblicità o le campagne elettorali. «Questa è una caratteristica della pubblicità digitale» ha confermato Parakilas. Una precisazione essenziale per comprendere, in maniera materialistica e in direzione di una critica dell’economia politica digitale, la posta in gioco.

È INTERESSANTE, a questo proposito, l’intervista rilasciata ieri al quarto canale radiofonico della Bbc da Alexander Kogan, ricercatore a Cambridge e a San Pietroburgo, che ha creato l’app «This is your digital life» con la quale ha reclutato 270 mila utenti secondo le modalità note su mercati digitali come «Amazon Mechanical Turk». In cambio di 3/4 dollari (e 800 mila dollari di budget) queste persone hanno risposto a un quiz sulla personalità. Fondi messi a disposizione da un’azienda per cui Kogan ha lavorato: la Strategic Communication Laboratories. Cambridge Analytica, diretta fino all’altro ieri da Alexander Nix poi dimissionato, è una sua costola. L’azione contestata è questa: Dai dati prodotti dalla forza lavoro di 270 mila persone si è risaliti ai loro «amici» su Facebook. E si è realizzato il «raccolto» di 50 milioni di profili, sostiene il «whistleblower» Christopher Wylie. Questo «raccolto» è stato usato per profilare e raggiungere qualcuno di quei 40 mila votanti nei tre stati americani che hanno permesso a Trump di vincere le elezioni nel 2016. È la tesi di Mark Turnbull, direttore del ramo politico della Cambridge Analytica.

KOGAN SI È DEFINITO un «capro espiatorio». «Cambridge Analytica utilizza i dati Facebook delle persone per il micro-targeting – ha detto – È in questo modo che sono usati i dati dalla maggior parte delle piattaforme. Facebook e Twitter e altre piattaforme fanno soldi attraverso la pubblicità. L’utente otterrà un prodotto che costa miliardi di dollari per farlo funzionare e in cambio le aziende lo vendono agli inserzionisti». «Mi hanno assicurato che tutto era perfettamente legale e rispettava i termini del servizio». «Quello che mi è stato comunicato con forza è che migliaia e forse decine di migliaia di app stavano facendo la stessa cosa. È stato un caso d’uso abbastanza normale dei dati di Facebook». Kogan ha detto di ignorare come i dati da lui prodotti siano stati usati. Sarebbe «orribile», ha detto, se avessero permesso di influenzare l’elezione di Trump «i cui valori non sono ben allineati con i miei». È una valutazione convergente con quella di Facebook che si è detto «ingannato». Nel gioco degli appalti e dei subappalti, ricorrente anche nell’economia digitale, sembra la norma. Ma non solleva Zuckerberg – che ha riconosciuto «errori» – dal sospetto di essere stato usato come uno strumento per affermare una visione politica opposta alla propria. Svalutando il bene capitalistico per eccellenza: la fiducia nella piattaforma e la sua reputazione.