«Il 1977 è una data convenzionale, i soggetti sociali e le forme di lotta che ancora si ricordano sono emerse prima – racconta Paolo Virno, tra i più importanti filosofi in Italia e protagonista di una delle riviste più seguite nel movimento: «Metropoli» – A Milano con i circoli del proletariato giovanile, le manifestazioni per le uccisioni di Zibecchi e Varalli, le mobilitazioni contro il lavoro nero. Allora non irruppero sulla scena pubblica solo i soggetti non operai. Fanno parte del ‘77 anche i 10 mila nuovi assunti alla Fiat , tra i quali c’erano per la prima volta moltissime donne e persone scolarizzate. Nel giugno ‘79 bloccarono Mirafiori con lo stesso vigore con cui fu occupata nel ’69 o nel ’73. Era in corso un’accelerazione generale che si affermava in maniera estrema, coinvolgendo tutto lo spettro della forza lavoro. In quell’anno tutto questo esplose: la clamorosa anticipazione soggettiva, di segno sovversivo, di un nuovo ordine che in seguito ha preso i connotati plumbei dell’ordine produttivo del capitalismo neoliberale».

paolo virno
Paolo Virno

 

Che cosa ha anticipato il movimento?

Il ’77 è stato un esordio. Fanno la loro comparsa le nuove figure della forza lavoro basate sulla produzione cognitiva, sulla cooperazione linguistica, una riorganizzazione della giornata lavorativa che allora ebbe una coloritura sovversiva. Non è la prima volta che un movimento anticipa il futuro: negli anni Dieci del Novecento negli Stati Uniti lo hanno fatto le grandi lotte degli operai dequalificati che precedettero il fordismo. E, ancora prima, nel Seicento inglese, quando i vagabondi furono cacciati dalle terre, non erano ancora inseriti nella manifattura e mostravano un alto grado di pericolosità sociale. Allo stesso modo, anche il ’77 è double face: da un lato, è una materia prima di comportamenti, affetti e desideri che hanno assunto una silhouette ribelle e sono diventati forza produttiva, uno stato di cose presente. Dall’altro lato, è il binario sul quale scorre il potere e il conflitto oggi.

Quali sono le caratteristiche della forza lavoro che si sono affermate allora e che sono ancora attuali?

Il ’77 ha anticipato, con conflitti durissimi, quello che veramente conta oggi. Marx lo ha definito un intelletto generale che non è più depositato nel capitale fisso, ma nei soggetti viventi. Conoscenza, affetti e intelletto esistono come interazioni e cooperazione linguistica del lavoro vivo. Questo rivolgimento segna un superamento della cecità dello stesso Marx, secondo il quale il tempo di lavoro è un residuo e quello che conta è la conoscenza e l’intelletto inferrati nel sistema delle macchine. La riproduzione della vita, e le stesse qualità produttive della forza lavoro, non sono solo quelle che si sviluppano nella sfera del lavoro. Per produrre plusvalore le aziende hanno bisogno di persone che sono maturate in un ambito più vasto dell’officina o di un ufficio, proprio per essere più produttivi in officina o in un ufficio.

Quali sono le facoltà del soggetto che sono messe al lavoro in questo processo?

Mi sono soffermato su tre elementi di fondo della natura umana: i caratteri persistentemente infantili durante la vita, la neotenia; la mancanza di una nicchia ambientale specifica per la specie umana, nella quale ambientarsi con innata sicurezza, e un alto grado di potenzialità testimoniato dalla facoltà di linguaggio, cosa ben diversa dalle lingue, che è qualcosa di plastico e indeterminato. Il ’77 è stato il primo movimento mondano, neotenico e potenziale che si è fatto forte di queste facoltà e non ha avuto il problema di tenerle a freno. Fino a quell’anno le istituzioni si erano difese da questi dati della natura umana. Dopo, e fino ai giorni nostri, li hanno acquisiti trasformandoli nella molla della produzione sociale e il motore delle forme di istituzione. Oggi la neotenia è stata rovesciata in flessibilità e formazione ininterrotta. La mancanza di una nicchia specifica ambientale è diventata mobilità e polivalenza.

In che modo la controrivoluzione neoliberista ha modificato queste caratteristiche?

Questi dati oggi dilagano con un segno rovesciato. Credo tuttavia che il fiorire di gerarchie minuziose, di paletti, di strettoie sia il modo in cui si esprime la fine della divisione del lavoro nel dominio capitalistico. Oggi la divisione tecnica del lavoro è largamente disfunzionale ed è diventato un modo per colonizzare il carattere pubblico delle tensioni etiche, emozionali e affettive della forza lavoro. La loro mutevolezza e imprevedibilità sono state trasformate in veri e propri mansionari. E tuttavia è difficile non considerare queste tensioni nel valore d’uso della forza lavoro, oltre che in relazione con il mondo più vasto. La condizione di base è potere e dovere condividere risorse fondamentali come l’intelletto e il linguaggio. La segmentazione del tratto cosiddetto transindividuale della forza lavoro risulta molto più accentuato di quanto avrebbe richiesto a suo tempo la divisione del lavoro. Il massimo delle potenzialità si rovescia continuamente in vicoli ciechi, ma è un rovesciamento disciplinare reso necessario proprio da questa confidenza con il potenziale che altrimenti farebbe saltare l’ordine produttivo. Ecco allora che alcune delle forme di lotta che sono possibili oggi le possiamo leggere come un documento storico in quello che è successo quarant’anni fa. La centralità di questi elementi smentisce l’idea che allora noi fossimo i rappresentanti di una «seconda società» degli esclusi. Al contrario quella che si muoveva era una «prima società», nel momento della sua inaugurazione. Ed è quella che siamo noi oggi.

Per quale ragione da allora fino ad oggi non è stato individuato un agire sociale generale capace di rovesciare il nuovo ordine produttivo, affettivo e politico?

È la questione saliente che si è data già dagli anni Novanta quando si credeva che l’inverno del nostro scontento fosse alle spalle e avremmo cominciato a vedere il lato civile perché ribelle della nuova realtà produttiva. Non è stato così, è arrivato Berlusconi. Siamo impantanati dal 2007 nella crisi globale e assistiamo a un’ulteriore chiusura.

Cosa manca oggi per definire concretamente un’alternativa?

Il minimo sindacale: il conflitto sulle condizioni materiali, come l’orario, il salario o il reddito. Questo terreno è il punto di partenza ed è diventato estremamente complicato. È difficile concepire un conflitto delle lavoratrici dei call center che non vada di pari passo con la costruzione di un embrione di nuove istituzioni. Per evitare un licenziamento o ottenere un aumento di 30 euro al mese oggi devi fare la Comune di Parigi. Quello che sembra il primo passo di un conflitto porta sempre con sé un’invenzione sperimentale di istituzioni post-statali.

Perché il ’77 ha rifiutato le forme della rappresentanza politica conosciute fino a quel momento?

La crisi della rappresentanza è irreversibile. In Europa, e non solo, stanno sorgendo forme genuine di fascismo: è una terra di nessuno che può essere abitata da tutti con pulsioni fra loro avverse. Il ’77 è stata una delle sue forme e il movimento l’ha letta in tempo reale, quando Lama e il suo servizio d’ordine furono cacciati dalla Sapienza. È un dato di fondo che si lega a processi di lungo termine che hanno messo fine al monopolio della decisione politica da parte dello Stato. Tuttavia è un’illusione ottica pensare che la crisi della rappresentanza sia un predicato solo di una parte, una virtù dei movimenti anti-capitalistici. Il populismo è un altro segno della sua caduta irreversibile. In realtà risponde a un fenomeno di fondo e oggi è diventato il liquido amniotico dove crescono i populismi e i fascismi europei. Sono i fratelli gemelli agghiaccianti delle istanze liberatorie, la versione orribile di cose che ci appartengono.

In che modo si è espresso quel rifiuto?

Nella disobbedienza, ad esempio. Questo tema ha preso allora una forma quasi costituzionale. Mise in dubbio quella che Hobbes ha definito una forma di accettazione del comando prima ancora che delle leggi. Non può esistere una legge che impone di non ribellarti. Nel ’77 la disobbedienza ha messo in discussione l’obbedienza, ciò viene prima di ogni concreto dispositivo legislativo. Quell’anno è stato estremamente violento ma, tolti i feticci della violenza che sono stati costruiti, il movimento ha espresso un diritto di resistenza rispetto alla nuova configurazione delle istituzioni post-statali. La violenza non è contrapposta a quella statale e militare. Si dà un diritto di resistenza per difendere qualcosa che hai costruito. La foto di Paolo e Daddo scattata da Tano D’Amico il 2 febbraio significa questo.

Che cosa avevate costruito per difenderlo così strenuamente?

Lo ius resistentiae difende qualcosa che hai già costruito: le opere dell’amicizia, un’amicizia pubblica che produce forme di vita, fatta di cooperazione e delle forme dell’intelletto generale e del lavoro vivo. Nel ’77 la categoria dell’amicizia cessa di essere una categoria parassitaria. La coppia amico-nemico viene scardinata e l’amicizia è intesa come cooperazione eccedente. È capace di costruire embrioni istituzionali, forme di vita che meritano di essere difese a ogni costo. Lo ius resistentiae non è una forma di violenza più moderata rispetto a quella delle ragazze che dal Smol’nyj, il collegio delle giovani aristocratiche di Pietroburgo, mossero contro il palazzo d’Inverno.

Come fare il primo passo?

Coltivando la propria incompletezza, rendendola ricettiva e virtuosa. Bisogna disporsi attivamente ad attendere l’imprevisto. E questo dipende dalla capacità del lavoro precario e intermittente di farsi valere in modo spietato. Davanti a un atteso imprevisto, la filosofia politica deve fermarsi e attendere. Per me il limite, e il culmine, della riflessione teorica è l’equivalente nel tempo presente degli Industrial Workers of World (IWW) americani. Se devo pensare a qualcosa che assomiglia al post ’77, e al ’77 messo al lavoro, penso a loro.

Hai un ricordo particolare di una giornata di quell’anno?

La manifestazione più vicina a un carattere insurrezionale è stata quella di Roma del 12 marzo, un corteo senza slogan né bandiere dopo l’uccisione di Francesco Lorusso a Bologna il giorno prima. Ricordo che stavo davanti al ministero della Giustizia in via Arenula, mi giro e ho visto un uomo anziano che camminava con passo affaticato: Umberto Terracini, fondatore del Pci, antifascista e presidente dell’assemblea costituente. Fu lui che al primo congresso dell’Internazionale comunista a Mosca intervenne in francese e incassò una replica da Lenin perché, secondo lui, era troppo estremista: «Plus de souplesse, camarade Terracini» gli disse. Per lui era naturale fare il percorso di quella manifestazione. Fu un momento molto toccante.