Il veneziano Paolo Cendon, ordinario di Diritto privato all’università di Trieste attualmente in pensione, partorì l’idea dell’Amministratore di sostegno (AdS) durante un simposio sulla salute mentale ai tempi in cui collaborava con gli eredi di Basaglia. Quel progetto si trasformò, 18 anni dopo, nella legge 6 che il 9 gennaio 2024 compie venti anni.

Prof. Cendon, come coordinatore del tavolo nazionale sui «diritti delle persone fragili» convocato presso il ministero di Giustizia, può confermare che le amministrazioni di sostegno sono in crescita?
Sì, oggi sono circa 400.000, i beneficiari, circa 140.000 gli interdetti e 1800 le inabilitazioni. E crescono in continuazione negli ultimi anni. Nella metà dei casi non si tratta di persone “incapacitate”, e quindi non perdono poteri perché è un falso che l’amministrazione di sostegno comporti sempre una perdita di poteri e diritti. La filosofia della legge è proprio dare supporto senza togliere nulla in cambio, a meno che non sia indispensabile. Però è difficile dire oggi quanti siano gli AdS che abbiano lasciato ai propri beneficiari il 100% dei diritti. I numeri sono di per sé ondeggianti anche perché una parte delle persone amministrate lo sono solo per un tempo determinato. E dunque il ministero di giustizia, l’unico che potrebbe tenere con precisione questi dati, non sempre è in grado di aggiornarli.

La figura dell’AdS sta diventando una professione?
Indicativamente, nel 60% dei casi gli AdS sono persone scelte nella famiglia del beneficiario, nel 40% dei casi no. Ma è un dato in evoluzione, perché effettivamente in molti casi è difficile per il giudice tutelare pescare in famiglia per mille impedimenti: psicologici, relazionali o di competenze. È anche un mestiere che praticamente si fa quasi gratis, nella maggior parte dei casi, salvo che il beneficiario sia molto ricco. Ed è un lavoro abbastanza ingrato, complicato, burocratico, noioso, col beneficiario che magari ti odia, ti maledice… questa talvolta è la realtà. Quindi, chi vuole fare un lavoro del genere? Non molti. E i giudici tutelari sono in difficoltà. Così è vero che attingono a quel parterre di professionisti che si presta al ruolo, e lo fa per molti utenti. Di conseguenza, a volte l’AdS non conosce neppure l’amministrato.

La redazione consiglia:
Angeli o demoni? Quando la vita è nelle mani di un altro

Chi paga l’amministratore di sostegno?
Solitamente viene pagato con i soldi del beneficiario, quando ci sono. L’indennità è proporzionate al patrimonio del beneficiario e alla difficoltà stessa dell’amministrazione. Per le persone povere dovrebbe intervenire un fondo regionale ma dieci regioni italiane non hanno mai legiferato per dettare le linee guida e costituire un fondo solidaristico. Perché le regioni non sono obbligate a farlo.

Secondo l’Associazione radicale Diritti alla Follia, «la frequentissima attribuzione alla Magistratura Onoraria della responsabilità di ricoprire l’ufficio del Giudice tutelare mal si accorda con la delicatezza dei diritti fondamentali in gioco». Cosa ne pensa?
Effettivamente sarebbe meglio se fossero tutti giudici togati, ma purtroppo c’è carenza di personale. L’amministrazione di sostegno ha avuto troppo successo. Nessuno si aspettava che in vent’anni si arrivasse addirittura a 400.000 casi, che poi sono in aumento continuo. In Italia i disabili potenziali sono circa 4 o 5 milioni, quindi solo un decimo è coperto dalla protezione ufficiale. La cosa preoccupante, anche se si stenta a crederci, è che questi numeri cresceranno. Quindi il problema per lo Stato sarà sempre più grande.

Come se ne esce?
La risposta non può essere scaricare tutto sui giudici. Il problema della fragilità non è solo un problema giudiziario. Bisogna rinforzare i bastioni amministrativi, fare un lavoro di rete, valorizzare il volontariato, il terzo settore, tutte le agenzie intermedie. Perché, un po’ come con la riforma Basaglia, bisogna che tutta la società si faccia carico della fragilità. Ma per farlo occorrono politici e amministratori partecipi e attivi. A Roma per esempio, mancando una legge regionale nel Lazio, stiamo lavorando con l’assessore alle politiche sociali Barbara Funari per mettere in piedi il «Profilo esistenziale di vita», una cosa vicina all’amministrazione di sostegno. A Roma ci sono 4 milioni di persone, circa un decimo non ce la fa a gestirsi. 400.000 persone solo a Roma è un bacino di persone che non possono gravare solo sui giudici. Bisogna che se ne gestiscano un po’ anche i politici, gli amministratori, il terzo settore, la rete, insomma il territorio. Che poi la filosofia solidaristica è materia della Costituzione. A rimuovere gli ostacoli non possono essere solo di giudici.

Paolo Cendon
Paolo Cendon

A distanza di 20 anni, oggi cosa cambierebbe della legge?
Abrogherei subito l’interdizione. Perché è proprio una vergogna, uno scandalo che esiste solo in Italia mentre una parte significativa dei Paesi europei l’ha eliminata, tipo la Germania, l’Austria, la Spagna… Per il resto non cambierei nulla ma insisterei molto sull’applicazione. Bisogna fare una specie di Regolamento, linee guida da distribuire in tutta Italia per attuare bene la legge. L’idea chiave è quella di valorizzare il territorio perché si assuma la responsabilità collettiva. Oggi il viaggio della persona fragile dentro il territorio è un po’ come il gioco dell’oca, rimbalza da una casella all’altra: prima c’è il giudice, poi l’ospedale, e magari il carcere, poi esce, trova la psichiatria, poi la comunità… Ci vuole una razionalizzazione: in una città come Roma ad esempio sarebbe bello se venisse attivato un «mega sportello gestionale della fragilità». Il giudice farà la sua parte, ma debitamente sostenuto da una rete.

Nelle Rsa spesso vi sono persone rinchiuse contro la loro volontà, che non hanno voce in capitolo.
Il problema più grosso è la burocratizzazione, l’omogeneizzazione, la standardizzazione di provvedimenti, la difficoltà di essere ascoltati. Il modello su cui puntare è quello dell’accudimento, della solidarietà, della presa in carico da parte di tutti, non solo dei giudici. Certamente ci sono dei casi limite, e esistono anche giudici e AdS che non fanno bene il loro dovere. Benché non siano la maggioranza.

È sua anche l’idea del «Patto di rifioritura» che prevede un accordo con il beneficiario e il rafforzamento dei poteri dell’AdS che sconfinano addirittura nelle cosiddette «scelte personalissime», di carattere familiare, sanitario e residenziale. Un’idea che ispirò il progetto di legge del Pd depositato nel 2019 che oggi viene ripresa in parte nella Pdl che porta le prime firme di Gianni Cuperlo e Paolo Ciani. Qual è la necessità di questa legge?
Ci sono dei fragili che sono pericolosi – se vogliamo usare questa parola – a se stessi e anche alla propria famiglia. Ci sono due milioni di italiani, se non tre, che fanno un uso problematico di sostanze e che hanno problemi psichici. Persone che non sanno gestire la propria vita sotto ogni aspetto: familiare, lavorativo, sanitario, organizzativo. Hanno una serie di vuoti, di ombre che obbligano a intervenire, un po’ per salvarli dal degrado e dall’angoscia, un po’ per aiutare le famiglie. La soluzione è vedere volta per volta cosa si può fare, cercare di attribuire il diritto civile al Giudice tutelare che prenderà in carico la persona definendo con lei un itinerario di uscita. Il Patto di rifioritura al posto del penale, al posto della psichiatria o di altro. Il Giudice tutelare ha con questa legge i poteri e gli strumenti per imporre certe condizioni, ma in generale cercherà un accordo fra soggetto fragile e il sistema nel suo insieme, per trovare la strada giusta. Anche la legge 19 del 2017 sul fine vita prevede che l’AdS possa agire in via esclusiva, se indispensabile. Naturalmente bisogna evitare gli abusi, ma il problema non è questo.

E qual è?
Il problema è la fragilità, sta diventando un problema epocale. Un po’ come l’immigrazione. Purtroppo gli italiani sono più fragili di come si pensavano vent’anni fa. Ma per cambiare il modello di presa in carico, bisognerebbe avere politici attenti. Il diritto civile dovrebbe essere preso assai più in considerazione, oggi.