Esiste un intreccio ormai ben documentato tra ricerca, finanziamenti pubblici e industria bellica privata nella realizzazione sia di strumenti tecnici, dall’evoluzione del software intelligente al dominio dello spazio in tutto i suoi settori, sia all’accumulazione del capitale culturale per trasformare tutti i componenti coinvolti in beni di scambio. La ricerca pura e distaccata, del cosiddetto mondo ‘avanzato’, ormai va riconosciuta solamente nel regno del capitale. Le discipline vengono “disciplinate” per essere indirizzate al mercato. Arrivano in aiuto all’assemblaggio, con il suo know-how tecnica e i suoi think tank sul Mediterraneo e sul Medio Oriente (e gli anglicismi sono anche i sintomi), di un Occidente che si sente sotto assedio da coloro che insistono ad avere i loro diritti: i migranti, i palestinesi, i tanti sud del pianeta. Così arriviamo ai nostri limiti etici e, perciò, critici, culturali ed intellettuali.

Qui Israele con i massacri che sta compiendo a Gaza e lentamente combinando in Cisgiordania, occupa ora il posto più palese. Come avevano capito più di mezzo secolo fa certi pensatori ebrei (Hannah Arendt, Albert Memmi), il nodo da discutere oggi non è tra l’ebraismo e il sionismo (anche i fondatori del sionismo erano d’accordo, è solamente in decenni recenti che l’ebraismo è stato armato per trasformare l’atrocità dello Shoah europeo nelle esigenze dello stato sionista nel Medio Oriente), ma tra il colonialismo, il sionismo e il fascismo.

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I rettori delle università italiane, sotto un governo di destra che ha nella sua formazione politica la genealogia del fascismo, stanno dando una mano diretta, tramite progetti di ricerca e consulenze intrecciate con l’industria bellica nostrana, ad uno stato fascista, evidenziato nelle sue pratiche storiche e nel suo linguaggio attuale. Come minimo, dovrebbero cessare immediatamente gli accordi con le università israeliani che dichiarano all’unisono di essere sioniste, cioè coloniali, esprimendo il loro appoggio pieno al progetto dell’insediamento coloniale e, implicitamente, alla prospettiva genocida dell’eliminazione dei nativi palestinesi.

Altrimenti si tratta di apologia del fascismo da parte degli enti di istruzione e ricerca italiane (come tutti quelli occidentali). Per essere chiaro, si trattano di boicottare uno Stato e le sue istituzioni, non i ricercatori e israeliani come individui. Storicamente, le università italiane hanno già avuto l’esperienza di appoggiare l’ordine del regime in esercizi simili, adottando leggi razziali e istruendo il corpo diplomatico e amministrativo nella gestione coloniale dei suoi territori oltremare negli anni Trenta del secolo scorso. Oggi, obbedendo il feticcio delle leggi universali del mercato e seguendo l’illusione superficiale della tecnica neutrale, sia quella fisica e strumentale delle scienze, sia quella metafisica e speculativa dei saperi sociali ed umanistici, si sta rendendo di nuovo servile e criticamente inutile.

In una realtà complessa, movimentata e eterogenea, l’università sta mettendo completamente a nudo, senza pudore, le premesse della sua liberalizzazione di mercato in atto dall’inizio degli anni Novanta. Ma soprattutto grazie alla resistenza degli studenti i luoghi della formazione culturale si stanno anche trasformandosi in nuovi inaspettati spazi critici dove il linguaggio ‘neutro’ delle comunicazioni istituzionali venga giustamente esaminato, criticato e messo in discussione. In parole povere, l’università si ribalta in una realtà più democratica, dove il confronto non è solo pro-forma sotto l’ombrello di ‘business as usual’, ma incide sulla direzione sociale e configurazione politica della formazione culturale del futuro. È l’anticorpo del movimento studentesco che ora cerca a salvare l’università da sé stessa.

La difesa oltranza e ottusa dello Stato d’Israele ha svelato in tutta la sua violenza unilaterale il laboratorio della modernità e la sua economia politica che sporge dalla geopolitica asimmetrica del mondo, perdendo ogni autorità morale. La politica si è distaccata dalla prospettiva di libertà per tutti. Se la Palestina ci sta insegnando come affrontare e attraversare questo paesaggio in rovina, ci indica anche la necessità di sanare un mondo completamente colonizzato dal valore eticamente vuoto del capitale.