Un mese di proteste e 1.680 arresti. Il bilancio delle mobilitazioni in Tunisia traduce solo in parte quello che è avvenuto nelle scorse settimane.

Dietro ai numeri ci sono le storie di giovani e giovanissimi, in molti casi minorenni, fermati dalla polizia per aver partecipato alle manifestazioni di piazza, postato critiche e denunce sui social network o, più semplicemente, per essersi trovati nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Come nel caso di Outail Chedly, studente universitario di 21 anni arrestato il 17 gennaio scorso mentre si recava in farmacia dopo l’orario di coprifuoco a Mourouj 4, venti minuti di macchina dal centro di Tunisi.

«Nel nostro quartiere ci sono state delle proteste ma nessun saccheggio. Mio fratello è stato fermato dalla polizia a 300 metri da casa, era uscito per comprare delle medicine per nostra madre», è il racconto di Adem Chedly, fratello maggiore di Outail.

Nell’espressione di Adem e della madre Wafa Chedly si può leggere tutta la sofferenza di chi non riesce a farsi una ragione. Nella loro casa su due piani alla prima periferia della capitale aleggia un senso di vuoto e mancanza dettato dall’arresto di Outail, condannato a un anno e sei mesi di carcere per saccheggio e violenza.

Wafa non riesce a trattenere le lacrime mentre osserva la foto di suo figlio. Da quando è uscito di casa il 17 gennaio, la stanza del giovane studente di economia non è stata toccata da nessuno; la chitarra appoggiata al muro e i guanti da boxe sulla scrivania di fianco al cellulare sono gli elementi che riportano alla quotidianità sconvolta della famiglia Chedly.

«Mio fratello non si interessa di politica, suona e legge libri e non c’entra nulla con le proteste. Quest’anno si dovrebbe laureare e ha dovuto svolgere degli esami nella prigione di Mornaguia. Outail non sa neanche di cosa è stato accusato, non ha mai letto il verbale e non ha mai incontrato l’avvocato che ci sta seguendo nel caso».

Le proteste in Tunisia, figlie di un malessere collettivo che va avanti da anni, sono iniziate il 15 gennaio scorso, nei giorni del decimo anniversario della Rivoluzione della libertà e della dignità che ha portato alla fuga l’ex presidente autoritario Zine El-Abidine Ben Ali.

Scoppiate in tutto il paese per chiedere maggiori diritti sociali ed economici, le manifestazioni si sono presto trasformate in rivendicazioni per chiedere il rilascio di chi è stato arrestato in maniera arbitraria dalla polizia. Diverse organizzazioni della società civile, tra cui la Lega tunisina dei diritti dell’uomo (Ltdh), hanno denunciato le pratiche delle forze dell’ordine nel contrastare le mobilitazioni.

«Abbiamo registrato condanne che vanno dall’anno e mezzo a più di 4 anni per avere infranto la legge sullo stato di emergenza. Tuttavia queste sentenze e quelle al momento dell’arresto sono dei copia e incolla, mancano le garanzie legali minime», è il commento di Noura Sdousi, esponente dell’Ltdh.

La grande e isolata prigione bianca di Mornag, nascosta nella campagna fuori Tunisi, è uno dei luoghi simbolo della fase successiva alle proteste.

Qui sono finiti molti giovani della capitale condannati in primo grado e ora in attesa dell’appello, tra cui il figlio della medica Louhichi Boutaina: «Mio figlio è rimasto a Mornag 15 giorni per avere pubblicato dei post sui social network. Per lavoro ho avuto modo di visitare le carceri. Conosco le violenze verbali e fisiche che hanno subito gli arrestati. Per violenze fisiche intendo pestaggi, alcuni nella fase di fermo sono stati toccati nelle parti intime. Stiamo cercando questi giovani per presentare una denuncia formale».

Anche Outail Chedly ha detto di essere stato schiaffeggiato nella macchina della polizia e di avere assistito al lancio di gas nelle celle per costringere i giovani arrestati a firmare i verbali in cui ammettevano le violenze.

La prima volta che la famiglia Chedly ha deciso di prendere parte alle manifestazioni è stata il 26 gennaio di fronte al parlamento tunisino, nove giorni dopo l’arresto di Outail. Una coscienza politica nata e dettata da una forte necessità, come afferma Adem: «Adesso bisogna continuare a manifestare per cambiare la situazione della Tunisia perché stiamo tornando indietro. Dobbiamo lottare e muoverci».