«È una grande soddisfazione e siamo felici che l’avventura continui nella speranza che il film, la storia di Seydou, venga visto da un numero sempre maggiore di spettatori in tutto il mondo». Con queste parole Matteo Garrone ha accolto la notizia della nomina nella cinquina dei film internazionali del suo Io Capitano, che arriverà dunque alla cerimonia degli Oscar il 10 marzo, nel Dolby Theatre di Los Angeles. Un risultato molto importante, che fa ancora più piacere perché, al di là della narrazione e del suo punto di vista, afferma il lavoro di un cinema italiano che ha nel tempo trasformato, o quanto meno spostato, le prospettive dei nostri immaginari.

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«Io Capitano», inseguendo la vita oltre il mareMA CHE STATUETTA sarà questa del 2024, il tempo della ripresa ma anche della crisi legata al lungo sciopero di Hollywood che ha bloccato per mesi le produzioni ritardando in pratica una stagione? «Sarà l’anno di Barbie o di Oppenheimer?» si chiedeva ieri il «New York Times» commentando le nomination agli Oscar 2024. La domanda sembra fittizia visto che Barbie, nonostante sia stato salutato come «il film della ripartenza» della sala dopo la tragica crisi negli anni pandemici, era già stato estromesso dai plausi. E forse persino prima dei risultati poco entusiasmanti ai Golden Globe, con una campagna che, se non denigratoria, almeno sminuiva la sua importanza, portata avanti qua e là dalle testate dell’industria cinematografica americana. La mancanza di Greta Gerwig nella categoria del miglior regista e di Margot Robbie in quella della migliore attrice sono a questo punto una conferma.
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E fa pure un po’ sorridere che a ottenere la nomination (migliore attore non protagonista) sia Ken/Ryan Gosling (e America Ferrera come migliore attrice non protagonista) a dispetto degli intenti femministi del film e pure di quel «politicamente corretto» di parità e inclusione di cui il film vuole e con una certa ironia (se fosse quello il problema?) essere il manifesto. Direzioni che sembrano invece essere state colte meglio da altri film, a cominciare dalla sorpresa – anche se in realtà annunciata dai Globe – di Justine Triet col suo Anatomia di una caduta; già Palma d’oro a Cannes, entra in cinque categorie di peso: oltre alla miglior regia, migliore attrice (Sandra Hüller), migliore sceneggiatura (della stessa Triet con Arthur Harari), miglior montaggio (Laurent Senechal). Un risultato che conferma l’ondata di entusiasmo mondiale cresciuta intorno al film.
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E poi Poor Things con 11 nomination, tra cui naturalmente quella a Emma Stone come migliore attrice – nei panni di Bella riportata al mondo dalla morte da un dio/scienziato/mago  per incarnare una liberazione del femminile – assai ammiccante. Il film di Yorgos Lanthimos, il regista greco ormai da tempo lontano dall’innovazione dei suoi esordi per un cinema che lo ha portato a Hollywood, ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra di Venezia, e sarà in sala domani (uscita ritardata dagli scioperi hollywoodiani).
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.Non è passato invece nella cinquina dei miglior film internazionali La passion de Dodin Bouffant designato dalla Francia, tra molte polemiche alla corsa agli Oscar invece del film di Triet. Esultano la critica e la stampa che hanno sostenuto Anatomia di una caduta  sin dal debutto. «L’ascensione» titolava ieri «Libération», sottolineando come Triet ce l’abbia fatta nonostante le imposizioni governative – le critiche lanciate  sul palco di Cannes al governo Macron erano state aspramente commentate dalla ministra della cultura, Rima Abdul Malak, anche lei ora sostituita nel nuovo governo (da Rachida Dati) sembra per i commenti negativi rivolti a Depardieu a cui invece Macron aveva mostrato pieno sostegno.
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PER IL PREMIO di miglior film se la vedranno poi The Holdovers di Alexander Payne, che porta a casa cinque candidature importanti  (miglior attore Paul Giamatti; miglior attrice non protagonista Da’Vine Joy Randolph; migliore sceneggiatura originale David Hemingson).

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Umanesimo senza tempo, i ’70 secondo Alexander Payne Maestro, il biopic su Leonard Bernstein e seconda prova da regista di Bradley Cooper, targata Netflix; il colosso dello streaming è, come l’anno scorso, lo studio con più nomination (ben 18) nonostante l’azienda stia attraversando un momento particolare, con l’addio annunciato di Scott Stuber, finora a capo della divisione cinema.
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Torna all’Academy l’Inghilterra,  La zona d’interesse di Jonathan Glazer è infatti (anche) tra i contendenti del miglior film internazionale, dopo ben 24 anni in cui il Paese è stato fuori dai giochi. Il lavoro di Glazer, incentrato su una famiglia di nazisti che vive appena al di là dai muri di Auschwitz, è in lizza anche come miglior film e miglior regia.
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LA GIOIA maggiore è la nomina della magnifica Lily Gladstone protagonista di Killers of the Flower Moon, il film di Scorsese ha ricevuto 10 nomination, compresa una per l’ottantunenne regista. Grande «snobbato» Leonardo DiCaprio, rimasto fuori dalla lotta tra i migliori attori. Gladstone è la prima attrice nativa americana a essere nominata agli Oscar – e non si può non pensare a Sacheen Littlefeather e a Brando che la mandò a ritirare la sua statuetta per denunciare davanti a quella platea la condizione dei nativi e la situazione di stallo a Wounded Knee.
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Per tornare al quesito iniziale, il film di Christopher Nolan sembra affermarsi decisamente con le sue 13 nomination contro le 8 di Barbie, tra cui film, regia, sceneggiatura e migliore attore per Cillian Murphy – «è un grande onore essere parte di un film che è riuscito a arrivare così profondamente al pubblico, un risultato che neppure noi ci saremmo mai aspettati» ha detto l’attore che interpreta il fisico della bomba atomica. È questo anche il pieno riconoscimento che arriva al regista da Hollywood dopo anni – in passato una sola nomination per la regia, nel 2018 con Dunkirk – premiando, come sottolineato da più parti sui giornali americani, un blockbuster «classico e di successo».