Il primo dato, ovviamente, è ad effetto: «Otto consumatori su 10», tra quanti attualmente usano oppio, morfina ed eroina, si ritrovano tra le mani oppiacei afghani. Il dato è contenuto nell’ultimo report sulla droga in Afghanistan appena diffuso dall’Ufficio contro la droga e il crimine (Unodc) delle Nazioni unite. Spiegando così, in maniera dirompente, come anche nel 2020 quel remoto e montuoso Paese dell’Asia centrale senza sbocchi sul mare, ora tornato in mano ai talebani e al loro emirato islamico, abbia rappresentato «l’85% della produzione globale di oppio, rifornendo circa l’80% di tutti i consumatori di oppiacei nel mondo».

Gli oppiacei sono del resto, da decenni, l’unico prodotto con il quale l’Afghanistan partecipa al mercato mondiale. Peraltro da leader incontrastato e fin dall’invasione e occupazione del Paese da parte di anglo-americani e Nato avvenuta nel 2001.

Agli afghani coinvolti in questo business, sempre stando alle ultime stime dell’Unodc, gli oppiacei garantiscono «tra 1,8 e 2,7 miliardi di dollari di profitti». Tra mercato interno ed esportazioni estere, oppio ed eroina generano ormai per l’Onu «tra il 9% e il 14% del prodotto interno lordo» dell’Afghanistan, superando persino il valore delle esportazioni legali di beni e servizi ufficialmente registrate, «stimate nel 2020 al 9% del Pil».

Tornando all’oppio che si raccoglie dalla pianta di papavero, «il raccolto del 2021 completato a luglio», in concomitanza con la presa del potere dei talebani, «ha visto per il quinto anno consecutivo una produzione ai massimi storici, pari a 6.800 tonnellate, in grado di garantire potenzialmente fino a 320 tonnellate di eroina pura da smerciare nei mercati di tutto il mondo».

Questo grazie a un aumento della resa di oppio per ogni ettaro (+8% rispetto allo scorso anno), che per l’Unodc è riuscita a compensare il calo registrato per la prima volta quest’anno di aree coltivate in Afghanistan a papavero da oppio: 177mila ettari, con una riduzione di 47mila rispetto al 2020 (-21%).

Crescono invece i prezzi, secondo l’ufficio Onu, «a causa dell’incertezza» per il futuro data dal ritorno al potere dei talebani. Unico accenno, questo, al loro emirato, visto che come detto i dati del report si fermano al raccolto del luglio scorso. È ancora presto per capire cosa decideranno di fare i talebani (la nuova semina avviene questo mese).

Pubblicamente hanno rapidamente dichiarato che il loro Afghanistan non sarà più un narco-Stato, mentre hanno già mostrato al mondo di non voler tollerare il consumo interno. La prima settimana di ottobre l’Ap ha ad esempio seguito un blitz notturno dei talebani sotto un ponte della capitale Kabul (nella zona di Guzargah) dove è presente una ben nota scena di droga all’aperto nella quale ti accoglieva un soffiatore di vetro che produceva sul momento le pipette per fumare la metanfetamina. I consumatori catturati sono poi stati portati in veri e propri campi di «rieducazione» (ovvero di detenzione), sollevando ancora una volta a livello internazionale critiche in merito al rispetto dei diritti umani.

In queste strutture, la maggiore delle quali è proprio nella capitale, a Camp Phoenix, dove dal 2003 sorgeva una base militare aperta dagli Usa, l’assistenza sarebbe carente e non esisterebbe trattamento o terapia sostitutiva. A differenza di quanto avveniva nei centri di trattamento o nei drop-in che si erano moltiplicati in tutto il Paese durante l’occupazione straniera, in seguito all’esplosione del consumo interno.

Quei vent’anni di guerra, oltre alla raffinazione di eroina direttamente in Afghanistan (prima del 2001 avveniva nei confinanti Iran e Pakistan), hanno portato nelle città afghane e oltre confine anche la metanfetamina, prima del tutto assente e ora prodotta in loco.

Il tutto grazie a una nuova innovativa ed economica ricetta a base vegetale: con la pianta di efedra, o oman, che cresce spontaneamente sulle montagne afghane, prima considerata senza valore. Tale nuova produzione, per l’Unodc, «è una minaccia per i Paesi della regione e anche oltre».