«Tebe dalle Sette Porte, chi la costruì? Ci sono i nomi dei re, dentro i libri. Son stati i re a strascicarli, quei blocchi di pietra? Babilonia, distrutta tante volte, chi altrettante la riedificò? In quali case di Lima lucente d’oro abitavano i costruttori? Dove andarono, la sera che fu terminata la Grande Muraglia, i muratori? Roma la grande è piena d’archi di trionfo. Su chi trionfarono i Cesari? La celebrata Bisanzio aveva solo palazzi per i suoi abitanti? Anche nella favolosa Atlantide la notte che il mare li inghiottì, affogavano urlando aiuto ai loro schiavi. Il giovane Alessandro conquistò l’India. Da solo? Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco? Filippo di Spagna pianse, quando la flotta gli fu affondata. Nessun altro pianse? Federico II vinse la guerra dei Sette Anni. Chi, oltre a lui, l’ha vinta? Una vittoria ogni pagina. Chi cucinò la cena della vittoria? Ogni dieci anni un grand’uomo. Chi ne pagò le spese? Quante vicende, tante domande».

E così la nota poesia di Brecht si chiude con il suggerimento a guardare oltre le grandi figure della Storia per cercare di vedere quanti, nell’ombra e spesso pagando con il sacrificio della vita, hanno di fatto «costruito Tebe dalle Sette Porte».

In queste settimane è nelle sale cinematografiche una sorta di biografia del noto fisico R. Oppenheimer, uno dei padri della bomba atomica. Diciamo uno e non il dato che, come ci ricorda la saggezza popolare, «il successo ha molti padri», e non tutti sono egualmente noti.

Tra le scene ricorrenti nella pellicola, ad esempio, vi è quella dello scienziato che introduce in una coppa delle biglie di vetro. Le introduce prima una ad una, poi a grappoli. Quando la coppa è colma la costruzione della bomba può finalmente partire.

Cosa rappresentano queste biglie? Sono la metafora del minerale di uranio che costituisce il cuore radioattivo dell’ordigno. Senza il materiale fissile, infatti, la reazione a catena non avrebbe potuto svilupparsi e, di conseguenza, la sua tremenda energia distruttiva.

Ebbene, questo minerale chi lo scavò? E quante storie ci sono dietro l’apparente successo di pochi, grandi, uomini di scienza? Ma, prima di rispondere a questa domanda brechtiana, facciamo un altro esempio di soggetti che la pellicola mette in ombra.

La storia della fisica nucleare ci insegna che il fisico sperimentale che mise a punto il principio centrale della bomba, cioè la cosiddetta «reazione a catena controllata», la tecnica che consente di rompere i legami atomici degli elementi radioattivi, la cosiddetta fissione, in modo da poter generare energia utilizzabile, fu il premio Nobel Enrico Fermi che, a causa delle leggi razziali che rischiavano di colpire sua moglie ebrea e di quelle contro la Libera Muratoria alla quale lo scienziato era iniziato, fuggì negli USA portando con sé queste conoscenze.

Senza la tecnica già sperimentata da Fermi nel famoso Istituto di via Panisperna insieme e ai suoi «ragazzi», la bomba non sarebbe mai nata. Eppure di lui nel film si parla appena, marginalizzando il suo ruolo nella vicenda.

Questo ci porterebbe a parlare anche di E. Majorana, misteriosamente scomparso pochi anni prima, forse perché aveva capito, da geniale matematico qual era, il rischio di lavorare su quelle scoperte. Ma, come sul dirsi, questa è un’altra storia che lasciamo alle speculazioni di Sciascia (La scomparsa di Majorana) e Agamben (Che cosa è reale).

La redazione consiglia:
Majorana in dissolvenza

Altro aspetto interessante di cancellazione totale dallo scenario della vicenda, è quello che concerne il territorio di Los Alamos, dove venne costruita la città degli scienziati. Quando Oppenheimer sceglie il sito lo descrive come luogo sostanzialmente desertico, che serviva solo ad una tribù di pellerossa «per i loro riti funebri». Naturalmente bisognava interdire loro l’utilizzo dell’area: in sintesi sloggiarli da un luogo sacro.

Ora, non c’è bisogno di scomodare l’antropologia della violenza che accompagna i miti di fondazione, cara a R. Girard (Il capro espiatorio), per capire che la bomba atomica non poteva che nascere sul sacrificio igneo dello Spirito che governava quei luoghi, salvo poi, per desacralizzare completamente il tutto, chiamare Trinity la fase sperimentale della stessa.

Ecco perché per «fissare» il mito, il Presidente Truman si rifiuta di restituire Los Alamos ai pellerossa.

E arriviamo così al nostro interrogativo. Chi scavò quei minerali, e da dove venivano? Cosa hanno significato per quella gente e quelle terre?

La risposta a queste domande comincia con la storia dell’Union-Minière du Haut-Katanga, la più grande società di quello che sino all’indipendenza, nel 1960, era il Congo belga, così chiamato per distinguerlo da quello francese, posto dall’altra parte del grande fiume omonimo. Un territorio vastissimo, grande quanto tutta la vecchia Europa, che per molti anni era stato proprietà privata del Re del Belgio Leopoldo II che lo aveva sfruttato imponendo un regime coloniale ferocissimo, fatto di schiavitù e punizioni corporali terribili, non solo per il malcapitato, ma per tutta la famiglia; pratiche che poi i belgi avevano continuato quando il territorio era passato allo Stato.

Un romanzo che illustra magistralmente questa condizione è Cuore di tenebra di J. Conrad che rappresenta, come in una tragedia greca, sia lo stato dell’anima di Kurtz, il protagonista, in alcuni passaggi descritto solo con la lettera K puntata, tormentato e ossessionato da visioni delirati, sia la situazione dei suoi schiavi.

Sperduto nella «stazione interna», K. deve inviare enormi quantità di avorio alla sua compagnia e non esita davanti a nulla pur di ottenere il risultato. Non a caso, la trasposizione cinematografica del romanzo, è quel Apocalypse Now di F. Coppola, dove Kurz è magistralmente interpretato da un tormentato ed autodistruttivo Marlon Brando.

Il fungo atomico di «Ivy Mike» (nome in codice dato al test) si alza sopra l’Oceano Pacifico sull’atollo di Enewetak, nelle Isole Marshall, il 1° novembre 1952 alle 7:15 (ora locale). Si trattò del primo test al mondo di un ordigno termonucleare su larga scala, in cui parte della resa esplosiva deriva dalla fusione nucleare. (AP Photo/Los Alamos National Laboratory)

La regione del Katanga, poi denominata Shaba, e poi tornata Katanga, è stata sempre considerata dai geologi uno «scandalo geologico», per la concentrazione delle sue ricchezze: diamanti, rame, e naturalmente, radio, cobalto e uranio.

Forse qualcuno dei lettori ricorderà i Katanga del Movimento studentesco del’68, ma anche questa è un’altra storia che testimonia però la centralità che in quel periodo aveva la guerra civile nel Congo, altro prodotto, come vedremo, dell’estrazione dell’uranio.

Ora, una delle miniere katanghesi, precisamente quella di Shinkolobwe, era appunto ricca di uranio. Inizialmente questo minerale era solo un prodotto di scarto degli scavi per estrarre il più prezioso radio, lo studio della natura radioattiva del quale valse il premio Nobel a Marie Curie.

Ma l’uranio divenne ben presto molto più interessante del radio quando, nel 1938, i fisici L. Meitner e O. Frisch elaborarono, sulla base delle sue caratteristiche atomiche, la teoria della fissione nucleare, poi messa a punto concretamente da Fermi.

Albert Einstein, con il rigore etico che lo contraddistingueva, in una lettera degli anni ’30 al presidente Roosevelt, avvertì che l’elemento poteva servire non solo come fonte di energia civile, ma anche come sorgente di una potenza distruttiva. Purtroppo, ma non è certo colpa dello scienziato, la nota chiariva anche che il minerale di miglior qualità, come concentrazione radioattiva, si trovava in Congo, «la più importante fonte di uranio».

Einstein temeva l’uso militare dell’energia atomica poiché conosceva i limiti dell’anima umana, e per questo si impose di impegnarsi per una politica di disarmo a livello globale. La sua lontananza etica dagli scienziati che contribuirono a mettere a punto la bomba è percettibile nel film quando appunto incontra Oppenheimer a Princeton che, d’altra parte, non lo era di meno; per questo cita il famoso passo della Bhagavad Gita: «Ora sono diventato Morte, il distruttore di mondi». L’originale sanscrito recita «Kaalo asmi loka kshaya kritpraviddho» con la quale Vishnu cerca di ricordare al Principe i suoi doveri. Per convincerlo, il dio assume la sua spaventosa forma di distruttore con quattro braccia.

Quando, nel maggio 1940, Hitler invase la Francia e il Belgio, il governatore generale del Congo belga dichiarò che la colonia avrebbe sostenuto gli Alleati. Oramai la potenziale centralità bellica dell’uranio era acclarata, e così si cominciò un reclutamento quasi forzato di manodopera, per scavare il minerale e imbarcarlo per gli Stati Uniti.

E così migliaia di minatori scavarono, trasportarono e caricarono il minerale, che fu inviato al porto di Matadi, per iniziare il suo viaggio attraverso l’Atlantico, nella speranza di superare gli U-Boot tedeschi. In questo modo oltre mille tonnellate del minerale arrivarono a destinazione, ma tremila rimasero a Shinkolobwe.

Le condizioni di lavoro erano così estreme che i minatori, sfiancati dal lavoro e dalle malattie, decisero di scioperare: il 7 dicembre 1941, lo stesso giorno dell’attacco a Pearl Harbor, organizzarono una enorme mobilitazione generale chiedendo un aumento. La risposta del direttore, alle insistenze degli scioperanti, fu di estrarre una pistola dalla tasca e sparare al loro leader, Mpoyi, a bruciapelo. Subito dopo i soldati aprirono il fuoco sulla manifestazione: ci furono più di 70 morti e un centinaio di feriti.

Come si vede nel film, un anno dopo l’attacco di Pearl Harbor, il presidente Roosevelt incaricò il generale L. Groves di dirigere il Progetto Manhattan. Meno di un mese dopo, il generale assunse Oppenheimer per costruire la bomba.

Ma la «maledizione» dell’uranio congolese non termina certo con la guerra, né tantomeno nel solo Congo, come l’attuale vicenda nigerina ci insegna.

Per questo l’attualità della storia che segue è così interessante. Dopo aver ottenuto l’indipendenza dal Belgio, dunque, il Congo si prepara alla sua avventura di giovane democrazia post coloniale. Il primo leader a guidare il Paese, dopo aver vinto a grande maggioranza le elezioni, sarà il giovane Patrice Lumumba, uno dei leader dell’Africa post coloniale che più credeva in un «Congo unito all’interno di un’Africa unita».

Il Paese che deve governare è estremamente arretrato dal punto di vista delle competenze: il Belgio, infatti, ne prevedeva l’indipendenza solo verso il duemila. Al momento di questa, quindi, non vi erano laureati di nessun tipo, e il tasso di analfabetismo è altissimo.

In quella temperie storica, Lumumba, eletto capo del Governo, dichiarò la sua indisponibilità a far parte dell’equilibrio bipolare che la guerra fredda imponeva a tutti i nuovi stati, dichiarandosi «non allineato».

Questa posizione, allora sostenuta da Cina, India, Jugoslavia, Indonesia ed Egitto, sarebbe già stata sufficiente a determinare le manovre che l’Occidente aveva predisposto per innescare la terribile guerra civile che, puntualmente, dopo qualche mese dall’insediamento di Lumumba, portò alla secessione del Katanga, ed anche alla ribellione del Kiwu, la regione al confine con Ruanda e Burundi, ancora oggi teatro di massacri immani per via del Coltan.

I ribelli katanghesi, sostenuti dagli USA e dal Belgio, sequestrarono Lumumba in fuga e lo uccisero; lo si saprà solo qualche tempo dopo: il suo cadavere sarà sciolto nell’acido.

Nella guerra civile, ferocissima e sanguinosa, decide giustamente di intervenire l’allora Segretario delle ONU Dag Hammarskjold che capisce la posta in gioco: la crisi del Congo era il primo vero banco di prova per un ONU che avesse voluto realmente esercitare il suo ruolo di «governo del mondo».

Proprio per questo, l’aereo che lo portava in Congo per la missione di pace (una vera missione di pace) viene sabotato dalla CIA: il Segretario morì, e con lui la possibilità che questo organismo multilaterale divenisse realmente ciò che doveva essere.

Dopo qualche mese di guerra civile, passato il pericolo di un Congo non allineato o, peggio, nelle mani dei Sovietici, un giovane tenete di nome Joseph Desiree Mobutu, nominato capo dell’esercito da Lumumba, ma organizzatore del suo stesso assassinio su logistica belgo-americana, viene nominato capo dello Stato ed inaugura una dittatura che morirà con lui dopo trent’anni, riaprendo alla fine degli negli anni novanta le ferite lasciate insolute da quella guerra civile che ha covato sotto la cenere della sua «cleptocrazia» sino ad essere rinfocolata dalle stesse potenze occidentali per mantenere il paese debole e diviso.

Sin dai tempi di Lumumba, infatti, ed ancora prima di Leopoldo e del suo «giardino personale», questa terra doveva essere solo una «estensione geografica» a disposizione degli interessi occidentali, senza riguardo alcuno alle opinioni dei suoi legittimi abitanti.

Ai tempi di Leopoldo la «missione civilizzatrice» copriva il commercio dell’avorio, dell’oro e del legno, ai tempi della Seconda guerra mondiale, come abbiamo visto, nel mirino dell’Occidente troviamo l’uranio delle bombe di Hiroshima e Nagasaki, lo stesso materiale che determinerà la morte della democrazia congolese insieme e a quella di Lumumba che aveva osato dichiarare che le ricchezze nazionali dovevano essere sfruttate a beneficio del suo popolo.

Perfino il successore di Mobutu, il vecchio guerrigliero lumumbista Kabila, riesumato dagli americani e sostenuto dai ruandesi del genocidario Paul Kagame, quando ha cercato di rivedere i contratti di sfruttamento minerario ispirandosi alla sua antica visione socialisteggiante, è stato assassinato dal suo stesso figlio adottivo, poi divenuto a sua volta presidente.

Oggi, dunque, guardando in questa prospettiva l’assassinio di Lumumba, possiamo ben dire come esso sia solo un emblema, una immagine paradigmatica che racchiude in sé tutte le altre, tutti gli altri assassinii che, quotidianamente vengono perpetuati sul corpo vivo di questo continente bello e terribile, che però non perde le speranze: nel cuore della tenebra c’è sempre un raggio di luce.