Da dove si contano «tre chilometri alla fine del mondo?». Nel film di Emanuel Parvu, in corsa per la Palma d’oro, il punto di partenza è un villaggio in Romania, sul delta del Danubio, una natura di grande bellezza e un ambiente tradizionale in cui la triade /famiglia/chiesa/polizia – con l’aggiunta della politica – è la bussola per ogni cosa, dove la corruzione è evadere il fisco – e dunque non permettere l’uso del bancomat ma solo cash per le case vacanze – e far valere le amicizie e i legami famigliari «in alto» così da mettere a tacere qualsiasi possibile scandalo. Che inizia a minare la comunità quando una sera il giovane Adi (Ciprian Chiujdea) torna a casa massacrato di botte. I genitori denunciano, lui non sa nulla, non ha visto chi lo ha picchiato, le voci però iniziano a circolare e ecco che si arriva ai figli del potente del paese. I quali però rivendicano le loro ragioni perché il ragazzo è omosessuale e stava flirtando in modo sfacciato con un turista, uno straniero. Impazzimento della famiglia che lo rinchiude in casa fino a farlo esorcizzare, omertà collettiva tranne che l’amica del cuore, unica persona capace di guardare verso l’orizzonte. Nelle intenzioni dichiarate dal regista, anche attore per diversi autori del nuovo cinema rumeno – come Netzer anche se il modello sembra più Porumboiu – c’è il desiderio di illuminare lo scontro fra un individuo in minoranza e la maggioranza che vuole sopraffarlo rispetto a qualcosa che giudica intollerabile. Una narrazione schematica, tagliata in modo netto, passo dopo passo senza un po’ di aria né alcuna tensione se non appunto quella di «dimostrare» qualcosa

MACHISMO, patriarcato, pregiudizio, luoghi comuni si sommano nelle attitudini della realtà in cui si trova il ragazzo, agente contaminante il luogo ai loro occhi – e forse trasformato dalle cattive influenze della città. Tutto vero, per carità, sono storie drammatiche di vissuti comuni; ciò però non è ragione per una narrazione così schematica, tagliata in modo netto, passo dopo passo senza un po’ di aria né alcuna tensione se non appunto quella di «dimostrare» qualcosa, il proprio assunto di una sceneggiatura che non lascia scampo. Non c’è una sola epifania in questo film, che pure ne permetterebbe, e nemmeno una sfumatura di conflitto nelle relazioni: il suo decalogo non lo permette ogni gesto deve essere fermo nel proprio statuto, compreso il finale di apparente liberazione. E questa bidimensionalità fa sì che si anche la violenza messa al centro si stemperi: ogni dettaglio diviene uno schema che deve rinviare a qualcos’altro, e la sua costante ricerca di compiutezza finisce per chiuderlo in se stesso.