Se nel mondo Bolsonaro viene trattato come un appestato non mancano certo le ragioni. Il rapporto della Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione della pandemia, con la richiesta di incriminazione del presidente per crimini contro l’umanità e altri otto capi d’accusa; le denunce presentate via via contro di lui presso il Tribunale penale internazionale; la devastazione dell’Amazzonia e le sistematiche aggressioni ai popoli indigeni; il negazionismo climatico; le minacce di golpe e l’esaltazione della dittatura; le dichiarazioni misogine e omofobe; i legami familiari con le milizie e i casi di corruzione: ce n’è più che abbastanza per capire come mai Bolsonaro non abbia sostenuto durante il G20 a Roma un solo incontro bilaterale. Perché tutti o quasi l’abbiano tenuto a distanza. Perché non compaia neppure nella foto ricordo dei leader del G20 alla Fontana di Trevi.
«Ogni volta che il presidente si reca a un vertice internazionale – ha twittato l’ex candidato presidenziale Fernando Haddad -, mi viene in mente il 7 a 1 subito dalla Germania» ai mondiali del 2014. Di tutte le batoste sportive, quella che ha fatto più male.

MA LE FIGURACCE che Bolsonaro rimedia in giro per il mondo non appaiono meno umilianti a una grossa fetta della popolazione brasiliana. «Nei miei quasi 60 anni di esperienza diplomatica, non avevo mai visto, neppure lontanamente, nulla di simile all’isolamento di Bolsonaro al summit di Roma», ha dichiarato l’ex ministro degli Esteri Celso Amorim.

Persino il vicepresidente, il generale Hamilton Mourão, ammette il problema, giustificando la già annunciata assenza di Bolsonaro alla Cop 26 di Glasgow con l’argomento che tutti lo prenderebbero «a sassate».
E se non servivano di sicuro ulteriori elementi per consolidare la sua pessima reputazione, uno nuovo se ne è comunque aggiunto venerdì: la pubblicazione del Rapporto sulle violenze contro i popoli indigeni del Brasile elaborato ogni anno dal Consiglio indigeno missionario (Cimi). Il quadro che ne emerge, relativo al 2020, è infatti devastante, a dimostrazione di quanto sia stato inopportuno eliminare, tra le accuse rivolte a Bolsonaro dal rapporto della Commissione Covid, quella del «genocidio indigeno».

Da un lato gli effetti del Covid, nell’assenza più completa di un piano coordinato di protezione delle comunità originarie: 43mila gli indigeni contagiati nel corso dell’anno, almeno 900 i decessi. Dall’altro, l’azione predatoria di garimpeiros, tagliatori di legna e latifondisti (per di più diventati una potente causa di diffusione del virus), in linea con il proposito di “passar a boiada” magistralmente espresso dal famigerato ex ministro dell’Ambiente Ricardo Salles, in riferimento alla necessità di azzerare la legislazione ambientale, come, per l’appunto, se ci passasse sopra una mandria di buoi.

I DATI DEL RAPPORTO sono impietosi, a cominciare dal più alto numero di omicidi degli ultimi 25 anni: 182 gli indigeni assassinati, con un aumento del 60% rispetto al 2019. Stesso discorso per i casi di «invasioni, sfruttamento illegale delle risorse e danni al patrimonio», cresciuti, nel 2020, anche rispetto al già allarmante numero registrato durante il primo anno del governo Bolsonaro: addirittura 263 – riguardanti 201 terre indigene e 145 popoli di 19 stati -, rispetto ai 256 del 2019, con un aumento del 137% in relazione al 2018. E il quadro è peggiorato anche riguardo ai casi di «conflitti relativi a diritti territoriali» (96, con una crescita del 174% rispetto all’anno precedente) e al totale dei casi di violenza contro indigeni: 304, rispetto ai 277 del 2019.