C’è un interrogativo antico che percorre di nuovo l’ebraismo italiano: la linea rossa dell’antisemitismo è già stata superata? Quando si guarda al passato è facile identificare eventi periodizzanti che dividono il corso della storia in un prima e in un dopo. E’ facile definire che le leggi razziali iniziate nel settembre del 1938 siano state un passaggio irreversibile, oggi l’impressione è di stare in mezzo al guado: da un lato lo sforzo di dare fiducia alla democrazia italiana e alla sua società civile dall’altro l’impressione crescente che la linea rossa, il confine invisibile, sia stato varcato. L’ebraismo italiano si guarda intorno con preoccupazione e le sfumature di questa inquietudine riguardano proprio la prossimità della linea rossa: «Ci sono sette milioni di nostri concittadini che non esitano a definirsi antisemiti – spiega Gadi Luzzatto Voghera, direttore del Centro di documentazione ebraica contemporanea e autore di “Antisemitismo” (casa editrice Biliografica) – La differenza è che prima non lo dicevano e adesso invece lo rivendicano. Più che un aumento dell’antisemitismo c’è la sua emersione».

I dati, d’altro canto, confermano le preoccupazioni. La Relazione annuale sull’antisemitismo in Italia l’Osservatorio antisemitismo del Cdec di Milano rileva il riproporsi di temi arcaici contro gli ebrei, il ‘nuovo’ antisemitismo sul web, il ritorno del linguaggio nazista. 130 gli episodi censiti nel 2018 e 2017 ma i dati per il 2019 giustificano il nuovo allarme: «A gennaio e febbraio – osserva Betti Guetta, ricercatrice – siamo già a 46 episodi censiti a fronte dei 27 dell’anno scorso e dei 23 del 2017. Si tratta soprattutto di episodi rilevati sul web a cui si aggiungono però sei insulti, due aggressioni fisiche e una minaccia alle persone». «E’ proprio quello che vogliono – commenta Ruth Dureghello, presidente della Comunità ebraica di Roma – rinchiuderci nella paura ma noi non dobbiamo far passare nulla. La situazione di allarme è innegabile ma non solo per il mondo ebraico, per l’intera società civile».

Le strategie per affrontare il clima sono molte, alcune di lunghissimo periodo: «Si tratta di considerare la cultura ebraica – spiega Noemi Di Segni, presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, l’organo rappresentativo a livello nazionale – parte integrante della cultura italiana: se siamo un segmento culturale integrato e riconosciuto non si tratta più di difendere gli ebrei ma di difendere la cultura italiana nel suo insieme. Forse è utopistico ma credo sia un obbiettivo importante». A rispondere alle sollecitazioni è intanto il rabbino capo di Firenze Amedeo Spagnoletto: «E’ necessario essere molto chiari: nella nostra città chiunque tocchi anche solo un capello a qualcuno per un crimine di odio riceverà una risposta compatta e concorde – racconta da una realtà dove gli incontri tra il rabbino, l’imam e la diocesi sono frequenti – Se qualcuno subisce qualcosa, può starne certo, gli altri interverranno per lui».

Ma l’inquietudine di una minoranza presente in Italia da oltre due millenni, i cui testimoni dello sterminio nazifascista sono ancora vivi e impegnati a parlare nelle scuole di tutta Italia, è forte. Le parole di odio, i toni aggressivi verso tutti ‘i diversi’ turbano i sonni di molti. La parola «sdoganamento» compare di frequente: «C’è preoccupazione per la caduta di tanti paletti su cui si fonda la convivenza civile e democratica – spiega Stefano, cinquantaquattro anni – C’è una crescita dell’odio utilizzato come strumento per ottenere consenso». «Si colpisce chi è diverso – si interroga Aron, 18 anni – ma come è possibile che un ragazzo, dopo quello che è successo in un paese che è stato protagonista del fascismo, non sappia niente?».

Cercare di raccontare l’attualità è una rincorsa costante e l’impressione che la linea rossa sia stata oltrepassata è forte: gli insulti antisemiti sul web alla senatrice Liliana Segre; le manifestazioni dell’estrema destra negazionista; il senatore cinque stelle Lannutti che su twitter cita «I protocolli dei savi anziani di Sion», uno dei classici dell’antisemitismo non solo del tempo dello zar. Vittorio Feltri che sostiene di «rompersi i coglioni con la Shoah». Perfino gli ascoltatori della colta Radio tre a proposito di Primo Levi commentano: «basta con questi ebrei» e «dovete fare cultura, non politica». Evidentemente le sensibilità sono cambiate anche in ambienti insospettabili. La linea rossa in realtà appare un inquietante territorio di confine in cui si mescolano molte cose diverse: «E’ importante distinguere – spiega Guetta – tra i pregiudizi antiebraici intesi come opinioni, luoghi comuni e stereotipi, e antisemitismo attivo con un attitudine ad agire fatta di azioni, minacce, e insulti interna ad una specifica posizione ideologica».

Così, se le azioni violente di ostilità antiebraica contraddistinguono determinati gruppi politici, il pregiudizio è invece trasversale alle appartenenze ideologiche e sociali. Guetta non ha dubbi «più ci si allontana dalla seconda guerra mondiale e dalla Shoah, lo sterminio degli ebrei, più il tabù dell’antisemitismo viene superato. Oggi poi c’è un aggravante: la straordinaria diffusione dell’utilizzo del web come fonte di informazione fonda un immaginario dell’ebreo anche presso persone che non ne sanno niente».

Sono cambiati però attori e accenti. In alcuni casi si tratta della riproposizione degli stereotipi classici dell’antigiudaismo cattolico anche se Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma, sostiene che «nella maggior parte dei casi credo che la Chiesa abbia abbandonato il secolare insegnamento del disprezzo mentre in alcuni situazioni, marginali, ho qualche dubbio». In altre situazioni si tratta di stereotipi più moderni e rilevati spesso in relazione a ciò che accade in Israele da una parte e alla banalizzazione della Shoah dall’altra. Il negazionismo resta patrimonio dei neonazisti mentre la banalizzazione della Shoah attraversa anche gruppi non militanti e rischia di diventare parte di un senso comune diffuso. Diverso è il discorso per quel che riguarda la critica ad Israele: «Quando si parla del conflitto israelo-palestinesi a volte si usano linguaggi e stereotipi dell’antisemitismo – spiega Gadi Luzzatto Voghera – Il sionismo diviene la rappresentazione dell’imperialismo finanziario occidentale comunque strumento dell’America».

L’analisi dell’Osservatorio riguarda, per esempio, vignette e slogan: «Noi non abbiamo definito il Movimento boicottaggio, disinvestimento e sanzioni come antisemita ma quando si va su alcune pagine web – spiega Guetta – le matrici delle immagini sono la rappresentazione di stereotipi antisemiti. Il pozzo da cui pescano e le immagini che usano sono spesso molto gravi».

L’ebraismo italiano non è il solo a denunciare il clima di intolleranza crescente: «La violenza verbale e politica è stata sdoganata da personalità eminenti – spiega Luzzatto Voghera – così anche se dove c’è razzismo c’è antisemitismo penso che siano due cose separate, rispondono infatti a genesi e percorsi diversi. Per adesso essere antisemiti non fa vincere le elezioni mentre essere razzisti si». «Sull’ebreo c’è un immaginario specifico – aggiunge Guetta – Sostenere che gli ebrei siano tutti ricchi o che hanno tutto il potere sono stereotipi sedimentati da decenni». In questo periodo il fronte cospirativista ha ripreso particolare vigore nel tentare di spiegare gli eventi come il risultato delle azioni di un piccolo gruppo potente che vuole promuovere un programma sinistro, riguarda gli ebrei ma non solo.

Il territorio definito dal filo rosso contiene preoccupazioni e amarezze: «Sono preoccupata – spiega Giordana, cinquanta anni – perché non ci si vergogna più». «Oggi mi rendo conto – aggiunge Claudia, cinquanta anni anche lei – che vivevo nell’illusione che nel dopoguerra fosse cambiato qualcosa». Per Alberto, cinquantacinque anni, «per un certo periodo abbiamo visto in pochi il fascismo che stava nelle istituzioni invece oggi dichiararsi fascisti è diventato normale».

Sul ruolo che le istituzioni ebraiche debbono avere sono tutti concordi: «Si tratta di monitorare ciò che succede – spiega il rabbino Riccardo Di Segni – segnalare alla autorità competenti, dare l’allarme se necessario e tranquillizzare quando non c’è motivo di preoccupazione». «I governi e le forze di polizia – aggiunge Dureghello – soprattutto dopo l’attentato palestinese del 1982 non hanno mai fatto passi indietro nella volontà di proteggere le istituzioni ebraiche». Il corollario di molte interviste è che comunque «l’Italia non è la Francia» ma qualcuno teme comunque «la globalizzazione che avanza anche su questo».

A proporre una commissione parlamentare bicamerale che vigili sui «fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche» è la senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio, ma la calendarizzazione della discussione è ancora di là da venire e, con questa maggioranza, sarà una vera sfida.

Nell’attesa la strategia dell’Unione delle comunità è pragmatica: la conoscenza della cultura ebraica. Per esempio: una commissione congiunta con la Cei sta analizzando i libri scolastici adottati nelle scuole cattoliche e quelli per l’ora di religione mentre un’altra, indipendente, lavora sui testi di storia e geografia: «Di solito – spiega Noemi Di Segni – si passa dall’antichità alla Shoah senza nulla in mezzo. Sul campione che abbiamo analizzato si nota che c’è un appiattimento molto forte. Per i più piccoli si tratta invece di insegnare la convivenza, le feste degli ‘altri’, il cibo, i valori».

Intanto i dati di frequenza dei musei ebraici fanno ben sperare: a Ferrara i visitatori del Museo Nazionale della Shoah e dell’ebraismo italiano sono stati 30mila di cui il 40 per cento sono scolaresche. Anche a Roma sia il Museo della Shoah che il Museo ebraico accolgono decine di migliaia di visitatori con una forte percentuale di studenti. A Milano invece la Fondazione Binario 21, il luogo da cui tra il 1943 e il 1945 partirono 23 treni diretti ad Auschwitz e ad altri campi di sterminio, si è aperta a nuove esperienze: «Dall’antisemitismo – spiega Marco Vigevani, agente letterario e ideatore del programma ‘Premesso che non sono razzista…’ – ci siamo allargati a tutti i problemi dell’intolleranza della società di oggi e abbiamo inserito anche iniziative dedicate all’eredità del colonialismo, al razzismo, a tutti i sintomi morbosi che si aggirano oggi per l’Europa. La nostra chiave è mantenere la specificità senza isolarla, deve essere una chiave che apre e che fa capire meglio».

Per l’Unione un altro settore prioritario è la formazione specialistica di chi ha responsabilità pubbliche: docenti, magistrati, giornalisti, operatori della cultura. «E poi – prosegue Di Segni – si tratta di ragionare in che modo affinare l’insieme di strumenti normativi che ancora non esistono. Non è detto che reprimere sia sempre la cosa migliore ma ragionare su questi temi fa parte del lavoro necessario. E’ importante sottolineare che non bisogna cadere in una trappola – prosegue allontanando la linea rossa almeno un po’ – in Italia ci sono persone che fanno un lavoro enorme e commovente: insegnanti, amministratori locali, società civile, bisogna mantenere con loro una progettualità positiva. C’è un’Italia bella che bisogna riconoscere».