Il leader dell’opposizione Raila Odinga ha nuovamente parlato dopo la sconfitta elettorale, pressato da Unione europa, Stati uniti e Unione Africana per trovare una soluzione politica alla crisi e alle vilenze esplose dopo la contestazione del voto che ha visto confermare presidente Uhuru Kenyatta. Odina è apparso teso e ha letto un documento in cui ha cercato di dimostrare che le «elezioni sono state rubate, la costante differenza di voti che si è assestata fin dai primi dati all’11% sarebbe la prova che il risultato è opera di un algoritmo informatico».

Dopo i timori di nuove violenze nei giorni scorsi era tornata la calma nelle strade di Nairobi. C’è stata meno tensione, «solo qualche colpo di arma da fuoco nella notte», dice Emmanuel Mbogo, residente a Kariobangi. Rimangono le accuse da parte della società civile di un uso sproporzionato della forza da parte dei militare, «perché non c’è nessun atto che giustifichi come conseguenza la morte» spiega Janine di Tarang’anya.

«È una situazione complicata, c’è sempre un drago che divora l’umanità – sentenzia Joab Onyango, dei servizi sociali di Mathare Valley -. Questo drago in Kenya è la tribù».

Non riesci a mandare tuo figlio a scuola perché guadagni 100 euro al mese e l’iscrizione ne costa mille? Di chi è la colpa? Dei Kikuyu. Non riesci a curarti perché la sanità è privata e non puoi pagarti un’assicurazione? Di chi è la responsabilità? Dei Luo. Non hai cibo a sufficienza perché i prezzi sono raddoppiati? Di chi è l’errore? Dei Kalenjin.

«Ti senti straniero quando in un ufficio pubblico – spiega Bonni Walama, direttore di una grande società – vedi che ci sono sempre gli altri, quelli dell’altra tribù. Da noi democrazia significa che la tribù più numerosa opprime tutte le altre e questo crea un continuo risentimento. Da noi la democrazia non va bene. Essere contro il governo ed essere contro i Kikuyu è un po’ la stessa cosa. Una sovrapposizione pericolosa, secondo Raphael Onyango attivista per i diritti umani, per questo un giorno il Kenya sarà come il Ruanda».

Raila Odinga incarna questo risentimento, l’esclusione permanente dal potere dei Luo (e degli altri piccoli popoli), ma la sua visione «non è alternativa – spiega un volontario che preferisce restare anonimo -, solo sostitutiva, da un oppressore a un altro». «Per questo qui il colonialismo non è mai passato – conclude Eric Wambua, educatore di watoto wetu -, ha solo cambiato colore».

Intanto la Kenya on Human Rights Commission che aveva dimostrato l’uccisione di 24 persone durante gli scontri post-elettorali è stata cancellata dal registro delle Ong: un tempismo sospetto. Si è riaperto un dibattito da cui è emerso un antefatto che risale al 1 agosto: la donazione di 534 milioni di scellini (5 milioni di dollari) della George Soros Foundation alla Key Empowerment Foundation Kenya diretta da Rosemary Odinga, figlia del leader dell’opposizione. Anche qui il governo ha deciso la cancellazione e ha congelato i conti. La ong tramite i suoi legali ha querelato Fazul Mohamed, direttore dell’ufficio governativo che si occupa delle ong.

Dopo i rumori, gli incendi, le sirene e le pallottole è tempo di ascoltare la voce della gente. Ma è un sussurro, sono lacrime che ti inondano dentro. Come spiega Paolo Latorre, missionario di lungo corso in Kenya: «La politica intesa come dominio non ha cuore per ascoltare il sussurro dei poveri. Una politica degna di questo nome non dovrebbe trascurare le piccole cose della vita di cui tutti abbiamo bisogno, ma specialmente la povera gente, povera prima di tutto di diritti». Questa politica in Kenya non c’è.