Bisesero è una località nell’ovest del Ruanda tra i comuni di Gishyita e Gisovu, una catena di colline ripide, coperte di foreste ricche di corsi d’acqua. La regione, abitata da tre clan – Abanyiginya, Abakono, Abahima – che vivono come una sola comunità tra isolamento relativo e solidarietà, è la terra natale dei tutsi conosciuti col nome di abesesero, figure eroiche perché, nel corso degli anni, sono riusciti a resistere e sopravvivere ai conflitti manifestatisi dopo l’indipendenza. Come ricorda Efesto Habiyambere, prima del genocidio «a Bisesero c’erano molti ragazzi e ragazze. Di giorno si ritrovavano su una collina per fare sport. Giocavano anche quando dovevano curare le vacche. Pochissimi tutsi di Bisesero avevano studiato. Si occupavano solamente di vacche».

Nella lontana capitale Kigali il genocidio cominciò la sera del 6 aprile 1994, nemmeno un’ora dopo l’abbattimento del jet Falcon con a bordo il presidente ruandese Habyarimana e quello del Burundi Cyprien Ntaryamira. Nell’area di Bisesero, i tumulti cominciarono un giorno dopo. Gishyita fu uno dei primi comuni dove gli estremisti cominciarono la caccia ai tutsi e organizzarono le bande ma l’avanzata delle milizie venne bloccata a Bisesero dove tutta la popolazione, disarmata, scese nelle strade. Ciò fu possibile perché fra hutu e tutsi si era creato un legame particolare che però con il passare dei giorni venne meno.

Il prefetto di Butare, Jean-Baptiste Habyalimana, unico tutsi a ricoprire quella carica in tutto il paese, cercò di mantenere la situazione più pacifica che potesse, e questo richiamò nella zona ancora più persone fiduciose di potersi salvare. Il 17 aprile venne arrestato e poi ucciso: a quel punto nessuno si sarebbe più opposto ai piani genocidiari.

Per comprendere l’olocausto di Bisesero occorre ricordare che molti profughi vi arrivarono stremati ed esausti, dopo essere sopravvissuti a stragi di massa precedenti: il 12 aprile municipio di Rwamatamu, il 15 parrocchia cattolica di Mubuga (5.000 uccisi), il 16 parrocchia dell’ospedale degli avventisti di Mugonero (6-7.000), il 17 parrocchia di Kibuye e foyer di Gitesi, il 18 stadio di Gatwaro (15-20.000), il 28 e 29 colline di Kizenga

Sulle colline di Bisesero con il trascorrere dei giorni arrivarono circa 50 mila persone che si distribuirono capillarmente, e scelsero dei comandanti carismatici tra gli abesesero: Aminadabu e Nzigira Birara, Siméon Karamaga, Aron Kabogora.

Tra una collina e l’altra gli attacchi venivano segnalati a suon di tamburo e questo permetteva di organizzare le difese. Le due regole basilari da rispettare erano: rimanere in gruppo il più compatti possibile, non nascondersi nella foresta e rimanere negli spazi aperti per contrattaccare ed evitare le imboscate.

La modalità di combattere degli abesesero in kinyarwanda è chiamata mwiuange sha, mescolarsi, una resistenza primaria costosissima in termini di vite umane. Gli uomini più forti occupano le prime file, le donne quelle intermedie e i bambini stanno dietro. Tutti sdraiati per non farsi vedere, al momento opportuno lanciano il contrattacco. Da dietro, agli uomini che scattano e si lanciano in mezzo al nemico per poi passare al corpo a corpo, vengono continuamente passate pietre, tronchi, finanche zolle di terra. Mischiarsi e lottare a distanza ravvicinata evita che gli attaccanti possano utilizzare armi da fuoco e granate.

Gli assalti più sanguinosi avvennero in maggio. Il 13 e il 14, organizzati dai ministri del governo transitorio, vi parteciparono più di 10 mila persone: miliziani, membri delle forze armate ruandesi, artigiani, operai, contadini e gli abitanti dell’aerea.

La notte del 13 è ricordata dai superstiti per la presenza di razziatori e di miliziani, di cani affamati e altri animali selvatici e per le grida dei feriti. Stremati dall’assalto, affamati e assetati essi passarono ore drammatiche a riconoscere i famigliari e dar loro una sommaria sepoltura. Le testimonianze dei sopravvissuti riportano cifre drammatiche: in due giorni venne ucciso il 90% delle vittime complessive di Bisesero. «Non ho potuto trovare il sentiero perché c’erano cadaveri dappertutto» raccontò un testimone ad African Rights. Quel giorno vennero visti dei bianchi che si muovevano e davano ordini come fossero i registi dell’attacco e che usarono una o più mitragliatrici e un mortaio. La presenza di francesi e belgi non emerse né nei processi del Tribunale penale internazionale per il Ruanda e nemmeno i quelli celebrati in loco, eppure i loro movimenti in quei giorni vennero segnalati in più luoghi.
Altri assalti vennero fatti il 20 e il 21 maggio, il 25 e il 30, passarono alcune settimane e poi ancora il 18 e il 21 giugno.

Ad un certo punto, gli assassini vennero dotati di nuovi machete made in Cina, più pratici ed efficienti: impugnatura di plastica e lama affilata su entrambi i lati. Con un colpo solo veniva inferto il doppio del danno. Le armi arrivavano da Goma, in Congo, tramite canali consolidati da anni che nemmeno nei tre mesi del genocidio vennero interrotti. A questo proposito, è una verità storica assodata la responsabilità della Francia che finanziò e armò i genocidiari.
In base al censimento del 1991, gli abitanti della prefettura erano 473.920. Stando alle cifre fornite dall’associazione Ibuka, a Bisesero su 71.225 tutsi ne vennero uccisi 59.050 tutsi (82,9%). Si tratta di numeri devastanti.

La resistenza dei tutsi a Bisesero è una pagina di storia straordinaria. Uomini, donne, bambini, anziani, feriti combatterono strenuamente, in principio organizzati dagli abesesero, poi per istinto di sopravvivenza. Il genocidio non venne fermato ma venne rallentato. Non sarebbe potuto accadere altrimenti, impossibile prevalere su decine di migliaia di assassini.

Su Bisesero non esistono foto, filmati, documenti. Ma abbiamo centinaia di testimonianze orali che dovrebbero far riflettere sulla pericolosità delle milizie organizzate dal potere.