Il «Mare di dolore» sono occhi scuri in primissimo piano e storie sempre uguali che si ripetono: dolore, violenza, traumi, morte, guerra. La fuga in un viaggio che costa migliaia di dollari e di cui non si conosce la fine. Hamid, afghano, ha visto morire entrambi i genitori con una pallottola in mezzo alla testa sparata dai soldati americani – «Volevano farmi tacere, gridavo troppo, poi son scappato» racconta in italiano. Amadou per arrivare dalla Guinea in Italia ci ha messo tre mesi perduto nel deserto attraversato senz’acqua, picchiato insieme agli altri dagli arabi traghettatori, l’incubo di finire nelle prigioni in Libia da cui non si esce più. Ragazzi giovani, ragazzini, qualcuno messo nei centri di accoglienza insieme agli adulti, sbattuti qua e là finché non li hanno riconosciuti minorenni. Accade ovunque, in Italia o in Francia dove gli operatori non vogliono mostrare al gruppo di inglesi arrivati in delegazione nella Jungle di Calais i bambini più fragili, due piccoli afgani, talmente distrutti emozionalmente da chiedere alla delegazione, di cui fa parte anche Vanessa Redgrave di portarli via con sé subito.

Sea Sorrow è il film d’esordio da regista dell’attrice inglese, protagonista del Free cinema, icona di James Ivory e premio Oscar nel 1978, una sfida lanciata all’Europa intera e al governo del suo Paese che sceglie di sbarrare i confini ai profughi e gli immigrati – «La parola profugo è oggi quasi sinonimo di criminalità» dice qualcuno. Accanto all’attrice c’è Lord Alfred Dubs, entrambi sono stati profughi da piccoli, forse è questo che li ha resi emozionalmente sensibili, due bimbi della guerra costretti a lasciare la casa e la famiglia. Dubs con un padre ebreo fuggito da Praga poco prima dell’arrivo dei nazisti, e lui a sei anni caricato sui treni dei bambini destinazione la Gran Bretagna dove aveva ritrovato il padre mentre la madre, li aveva raggiunti avventurosamente pochi giorni prima dell’invasione della Polonia. Redgrave che ricorda ancora le bombe su Londra, col fratellino – piccolissimi e con gli abiti d’estate nelle foto in bianco e nero – mandati in campagna sperando che fossero più al sicuro. E il secondo conflitto mondiale è un riferimento che torna spesso mischiato al presente, ai molti attori noti che leggono documenti o giornali d’epoca – come Emma Thompson o Ralph Fiennes – alle manifestazioni di attivisti i sostegno ai migranti, ai rimandi a Shakespeare. Eppure, mentre lo si guarda, a parte dei paragoni un po’ stonati tipo quello tra il rifiuto di accogliere gli ebrei in fuga dall’Olocausto e i profughi oggi – viene da chiedersi perché è qui se non in virtù della fama di Redgrave, che per carità, è preziosa testimonial se serve a sensibilizzare su quanto accade accanto a noi in una platea come quella di Cannes.

Però deve essere per forza un brutto film a farlo, seppure sicuramente sincero e motivato come è qualcuno che ha combattuto per i diritti sociali e politici tutta la vita, e che dunque ha le intenzioni migliori? Ma qui vengono assecondati tutti i luoghi comuni, tutto quanto serve a commuovere e a fare sentire più buono chi guarda per poi tornare a casa sollevato. Non c’è cinema, il che è serio lo stesso, perché è un dovere nel racconto del presente cercare il conflitto fuori dall’abitudine di un servizio televisivo, e l’impressione è che al festival serva – malgrado ripeto la sicura sincerità – più come promozione di immagine con la retorica che ne consegue (ma fa meglio la Berlinale che da almeno due anni da grande spazio ai film sui migranti che hanno anche una forma-cinema).