All’indomani del voto europeo il cielo sopra l’Ungheria continua ad essere arancione, il colore del partito governativo Fidesz. Un partito che col 52,14% dei voti migliora il risultato di cinque anni fa e aggiunge un seggio ai dodici che già aveva. «Una vittoria epocale», così è stato definito il successo del Fidesz da Viktor Orbán che, nel discorso pronunciato a risultati noti ha ripetuto il mantra suo tipico: «L’Ungheria agli ungheresi, l’Europa agli europei». Il riferimento è alla paventata invasione dei migranti islamici nel Vecchio Continente; tema che anche stavolta è stato al centro della campagna elettorale governativa insieme a quello dell’impegno a preservare l’identità culturale europea che secondo la retorica del premier non può essere che cristiana. Ma ce n’è anche per la tanto detestata tecnocrazia dell’Ue che per Orbán e i suoi deve capire di non poter più dettare legge in casa d’altri. «Facciamo sapere a Bruxelles che l’immigrazione va fermata», dicono i manifesti governativi arancioni sparsi per il paese in occasione del voto. Messaggio recapitato e rafforzato dal successo del partito del premier che si conferma egemone sulla scena politica nazionale.

La vittoria del Fidesz era nelle previsioni, così come i nomi degli altri partiti che ora hanno diritto a seggi nel Parlamento europeo. Per Fidesz resta l’incognita sul gruppo al quale aderirà a Strasburgo. Sospeso dal Ppe, Orbán dopo il voto non si è sbilanciato: «Sceglieremo il nostro gruppo in funzione della politica futura del Ppe», ha detto.

Non sono mancate però le sorprese: i sondaggisti probabilmente si aspettavano qualcosa di più dai socialisti dell’MSZP in coalizione con Párbeszéd (Dialogo) e da Jobbik pur notoriamente in calo di voti. Entrambe le forze politiche hanno perso quota e si ritrovano con qualche seggio in meno. Il tentativo di Jobbik di presentarsi all’elettorato come partito di destra sì, ma moderato, dopo i suoi trascorsi estremisti e le frequenti esternazioni razziste, non ha dato i frutti sperati.

Probabilmente, per coloro i quali ne sono usciti per confluire in Mi Hazánk (La nostra Patria, MH), è diventato un partito borghese, lontano ormai dalla sua matrice radicale e dalle lotte con cui aveva esordito e che aveva portato avanti, a lungo, sulla scena politica di casa. Tra i fondatori di MH c’è quel László Toroczkai, sindaco di Ásotthalom, piccolo centro abitato al confine con la Serbia, protagonista, nel 2015, di un video anti-migranti, ed ex vicepresidente di Jobbik. MH ha ottenuto il 3,33% dei voti, il suo motto è «né Orbán né Gyurcsány (ex premier socialista» e intende impegnarsi anima e corpo nella difesa dei valori nazionali al posto di Jobbik la cui crescita, al voto di cinque anni fa, aveva spaventato l’Ue.

Si piazza al secondo posto DK (Coalizione Democratica, centro-sinistra), il partito di Ferenc Gyurcsány, personaggio carismatico ma detestato dai nazionalisti ungheresi. La sua forza politica ottiene oltre il 16% dei voti andando oltre le aspettative e due seggi in più di quelli che aveva. È forse ancora più interessante, però, l’affermazione di Momentum, dato alla vigilia del voto a circa il 5%, ne ha ottenuti praticamente il doppio e ora ha diritto a due seggi. Si tratta di un partito di recentissima costituzione, che l’anno scorso ha partecipato per la prima volta alle politiche ungheresi senza però poter mandare deputati al Parlamento nazionale. Caratterizzato da una composizione prevalentemente giovanile, liberale e antiorbaniano, viene dalle iniziative della società civile e intende rinnovare la politica del paese e provare a indicargli un percorso diverso da quello battuto dall’attuale premier. Chi l’ha votato ha evidentemente tentato la carta della gioventù, delle belle speranze, e pensato di dar credito a una forza che un giorno potrebbe rappresentare il cambiamento. Il risultato di Momentum è interessante, sì, ma allo stato attuale delle cose il panorama politico ungherese continua ad essere dominato dal Fidesz e il cambiamento, pur sperato da non poca gente, non è certo dietro l’angolo.