La biodiversità è un elemento fondamentale di un ambiente sano, ma parte della fauna presente sul territorio italiano non gode di ottima salute. Gli uccelli in particolare – ambiente montano escluso-, sono in forte calo per quantità e varietà nei campi: alla valutazione empirica che ogni persona con un minimo di memoria «agricola» può confermare, si affianca ora una ricerca dal grande valore, perché delinea una realtà altrimenti facilmente opinabile dagli scettici.

I DATI NON MENTONO: LA PRESENZA DI AVIFAUNA nelle zone agricole italiane è calata del 36% nel periodo 2000-2023, della metà in Pianura Padana. Lo dichiara la Lipu, rendendo noti i risultati del suo studio sul Farmland Bird Index, ossia l’indicatore che descrive l’andamento delle popolazioni degli uccelli comuni nelle campagne. E non si può certo accusare l’associazione di partigianeria ambientalista, considerando che l’indice è calcolato su incarico del ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste.

LA PERDITA DI AVIFAUNA non è importante solo a livello quantitativo, ma anche qualitativo. «I dati del nuovo Fbi sono drammatici – spiega Federica Luoni, responsabile agricoltura della Lipu- con 20 delle 28 specie prese in esame che mostrano indici di popolazione in declino significativo. Si tratta di numeri purtroppo attesi, poiché nessuna delle politiche e delle misure che avevano lo scopo di invertire la tendenza è stata messa in atto». L’agricoltura intensiva degli ultimi decenni, secondo i dati, ha portato al crollo di specie in passato molto presenti, come la rondine (-51%), l’allodola (-54%) o la passera d’Italia (-64%), più che dimezzate, e la quasi scomparsa di specie come l’averla piccola (-72%), il saltimpalo (-73%), il torcicollo (-78%), il calandro (-78%).

IL DEGRADO NON COLPISCE SOLTANTO LA PIANURA PADANA, ma anche la macchia mediterranea e gli ambienti collinari, specialmente delle zone del centro e del sud Italia, dove otto specie su nove (torcicollo, upupa, usignolo, saltimpalo, verdone, cardellino, verzellino e ortolano, fa eccezione solo il rigogolo) stanno vivendo un calo consistente, sempre a causa della banalizzazione dei paesaggi agricoli e dell’uso di prodotti chimici. Sembrano fare parziale eccezione solo le praterie montane, con un calo dell’avifauna nell’ordine del 24% – comunque sensibile, se non drammatico- e alcune specie che sono addirittura in aumento, come il culbianco e lo stiaccino, uccelli tipici in tali ambienti.

PER INQUADRARE I DATI IN UN CONTESTO PIU’ PRECISO, vale la pena inoltre ricordare che la superficie agricola utilizzata e la superficie agricola totale sono in diminuzione in Italia, con conseguente riduzione dell’habitat per l’avifauna: nel primo caso siamo passati dai 13 mila 182 migliaia di ettari di inizio millennio ai 12mila 535 di oggi, nel secondo da 18mila 767 migliaia di ettari a 16mila 474. Meno superficie implica delle difficoltà per gli uccelli nel trovare un ambiente adatto per riprodursi e nutrirsi, ma la diminuzione dell’avifauna appare comunque ben superiore alla riduzione delle aree.

IN AGGIUNTA A QUESTI DATI, E’ INTERESSANTE notare inoltre come il numero di aziende, nello stesso arco temporale, si sia ridotto da 2 milioni 396 mila a 1 milione 133 mila: una concentrazione che ha contribuito con ogni probabilità alla diminuzione di varietà delle colture e alla «industrializzazione» delle stesse, con inevitabili ricadute sul fronte della tutela della biodiversità. L’utilizzo di pesticidi e l’agricoltura intensiva ovviamente non aiutano l’ambiente e l’avifauna. In particolare, per la Lipu il rinvio oltre il 2030 al taglio del 50% dei fitofarmaci sul territorio dell’Unione Europea insiste in una direzione sbagliata. «Il Green Deal e la transizione ecologica dovrebbero rafforzarsi, conciliando le esigenze della produzione agricola con l’indispensabile tutela della biodiversità. Perché, nonostante il quadro negativo, le possibilità di ripresa ci sono – conclude Luoni – in particolare in quelle aree agricole dove la produzione è meno intensiva e industriale, e dove la biodiversità ancora è presente. Per questo è importantissimo incentivare le misure naturalistiche, in Europa e in Italia. L’agricoltura trarrebbe beneficio in termini di salute del suolo, presenza di impollinatori, ricchezza dei servizi ecosistemici, qualità del cibo e del paesaggio».

LE MISURE AGROECOLOGICHE FONDAMENTALI del Green Deal per un’agricoltura di qualità e amica degli uccelli si possono riassumere in un 25% di terreni agricoli coltivato biologicamente, con il 10% del totale destinato a elementi del paesaggio con elevata diversità. Inoltre bisognerebbe ridurre del 50% l’uso dei fitofarmaci più dannosi per ambiente e salute umana, ridurre del 20% l’uso dei fertilizzanti e dimezzare le perdite di sostanza organica del suolo. Infine bisognerebbe piantare 3 miliardi di alberi aggiuntivi, rispettando i principi ecologici, con più siepi e filari.

PIU’ IN GENERALE, LA MINACCIA ALL’AVIFAUNA non arriva solo dalla diminuzione della campagna, dalla banalizzazione delle colture e dall’uso di pesticidi. Un altro nemico per la salute degli uccelli è rappresentato dalla zootecnia di stampo industriale. Gli allevamenti intensivi – proprio negli scorsi giorni è stata presentata una proposta di legge che mira a contrastare questo approccio, sostenuta dalle principali sigle ambientaliste- sono dei potenti incubatori di malattie, mortali per la fauna selvatica. In un articolo a firma Laura Silva risalente alla scorsa estate, la responsabile recupero fauna Lipu evidenzia per esempio come «l’intensificazione dell’industria avicola ha creato l’ambiente ideale affinché il virus dell’influenza aviaria si diffondesse e mutasse. Il recente aumento delle varianti ad alta patogenicità (Hpai) ne è la conferma». Silva conclude che «l’impatto a lungo termine sulle popolazioni di uccelli selvatici lo comprenderemo probabilmente solo nei prossimi anni», ma a titolo esemplificativo si stima «nei Paesi Bassi o in Israele una perdita dell’80% dell’intera popolazione riproduttiva di beccapesci e del 20% della popolazione svernante di gru . Accanto alle misure dirette per fermare la diffusione della malattia, da rivolgere prettamente al comparto avicolo, si rafforza pertanto la necessità di aumentare le forme tradizionali di conservazione di specie e habitat per compensare le eccezionali perdite delle popolazioni autoctone».