Non ci sono più, per Washington, quegli affidabili Pinochet di una volta. Il golpe tanto auspicato dalla Casa bianca e, di sottecchi, da molti governi europei, con in Italia Salvini plaudente e l’appoggio del confinante fascista Bolsonaro, annunciato poi dai media di mezzo mondo, si è alla fine rivelato una bolla di sapone.
Ora gira la voce che di una «farsa» si sarebbe trattato, con i «russi» che avrebbero giocato a Guaidó e agli americani un brutto tiro, facendo arrivare notizie false di un improbabile compatto schieramento dell’esercito con l’autoproclamato presidente ad interim, ma talmente convincente da fargli proclamare la «rivolta militare» per «l’Operazione libertà definitiva».

Abituati al più drammatico incipit sul «colonnello Aureliano Buendia…» di Cent’anni di solitudine, è sicuro che Guaidó passerà non alla storia latino-americana ma tout-court al costume: si potrà dire infatti d’ora in poi che una cosa annunciata come vera in realtà è «alla Guaidó», oppure «Gran Varietà Guaidó».
Non dimenticando che solo tre mesi fa Juan Guaidó, un signor nessuno formatosi alla scuola di rivolte sanguinose quanto fallite di Otpor (dalle molte primavere arabe alla Georgia, all’Ucraina) e diventato per caso presidente dell’Assemblea nazionale, si è autoproclamato presidente della repubblica ad interim, subito riconosciuto dagli Usa e dall’Unione europea.

Che ha consentito al sequestro di Londra di dieci miliardi della divisa di Stato venezuelana derivati dal commercio del petrolio, ma inviando «ben» 20 milioni in derrate alimentari alla frontiera di una paese, la Colombia, in crisi nera ma taciuta. Tutti questi ricatti e «aiuti» non hanno prodotto alcun risultato, se non impoverire ulteriormente i venezuelani e alimentare la propaganda. Tutti contro Maduro, inesorabilmente, «dittatore» nonostante che in quel Paese dall’avvento di Chavez nel 1998 a oggi, di elezioni – supervisionate spesso da osservatori internazionali – politiche, amministrative, presidenziali, ce ne siano state almeno 25, tutte vinte dal chavismo e due – tra cui le ultime politiche – invece perse. Sempre non spiegando come sia possibile che esista in una «dittatura» un parlamento eletto, una Costituzione – sulla quale ha giurato anche Guaidó – e una Assemblea costituente.

Ma per passare dal faceto al serio, non possiamo dimenticare che quest’ultimo alzamiento è una tragedia e prelude al peggio. Anche se resta vero che le vittime del tentato colpo di Stato alla fine sono due e decine i feriti, e se ci guardiamo attorno la guerra tra gang a Londra nelle ultime 24 ore e l’ultimo, ordinario mass shooting in un campus universitario Usa, ne hanno fatte molte di più.

È una tragedia perché insiste su una situazione di indubbia crisi aperta, per un paese nevralgico del mondo globalizzato: è la riserva petrolifera del pianeta, ed ha avviato da venti anni una trasformazione socialista della società che chiama «bolivariana» che aveva sollevato dalla miseria milioni di persone. I due termini però sono entrati in conflitto fra loro: l’estrattivismo, il petrolio come fondamento dei processi redistributivi e centralità organizzativo-burocratica, si è rivelato una maledizione quando il costo del barile è precipitato, e insieme uno strumento non sufficiente per sviluppare i grandi progetti sociali avviati; e, invece, si è appalesato come un meccanismo riproduttivo di una vasta corruzione.

La morte di Chavez nel 2013 ha fatto il resto. Chavez, che all’inizio del suo avvento sulla scena, sembrava nient’altro che un caudillo, un militare al potere ma di sinistra, si è in realtà rivelato come l’artefice di una svolta che prevedeva forme di democrazia progressiva, con tanto di nuova Costituzione bolivariana, dentro un processo che ha avviato una modifica dei rapporti di produzione e di proprietà; oltre che essere diventato un leader molto popolare, riportato a palazzo Miraflores da una folla di 200mila persone dopo il tentato golpe del 2002, anche quello subito appoggiato dagli Usa e pure quello fallito. Il lascito nelle mani di Maduro del Venezuela mostra ora alcune evidenze pesanti e critiche: Maduro non ha proprio il carisma di Chavez; le ultime elezioni politiche hanno visto la sconfitta dei socialisti bolivariani; da 5 anni il Paese è soggetto a pesanti sanzioni economiche che ora arrivano a bloccare le esportazioni di petrolio; proprio per questo il Venezuela si è rivolto alla Russia e in modo più masssiccio alla Cina, mentre continua a sostenere l’economia di Cuba socialista, anch’essa tornata a subire le sanzioni di Trump dopo la svolta di Obama.

Non c’è più la crisi venezuelana: c’è una crisi mondiale, internazionalizzata dalla spregiudicatezza, violenza e incapacità che contrassegnano la presidenza Trump e l’Amministrazione Usa dei Pompeo, dei Bolton, degli Elliot Abrams – l’inviato statunitense per il Venezuela che, se esistesse il diritto internazionale, dovrebbe stare in galera all’Aja per aver ispirato gli squadroni della morte in Salvador e Guatemala negli anni Ottanta. Un incapacità confermata dagli avvenimenti di questi giorni. Perché le informazioni alla Casa bianca arrivano solo da una opposizione inaffidabile.

Certo la crisi economica profonda nel Paese c’è, ma come spiegare il sostegno a Maduro, dopo l’auoproclamazione del 23 gennaio, dopo il boicottaggio dei blackout, dopo 5 anni di sanzioni? Senza dimenticare la tempistica del «golpe», proclamato il giorno prima del Primo Maggio, quando presidenza, governo e Forze armate avrebbero partecipato a manifestazioni preparate proprio per la festa dei lavoratori e belle e pronte come risposta di massa al tentativo golpista. Ora la provocazione resta in campo. Perché – visto che in ogni paese al mondo se un leader politico chiama alla rivolta militare perlomeno viene interrogato – tutti aspettano un mandato d’arresto per Leopoldo Lopez e Juan Guaidó, probabilmente mandato scientemente allo sbaraglio dai padrini statunitensi perché si «martirizzasse».

Insomma, nonostante l’evidente fallimento è tutt’altro che finita. Ed è grave perché la vera debolezza del Venezuela a questo punto non è militare, è la sua crisi economica, la mancanza di una opposizione non golpista e la necessità solo annunciata di nuove elezioni politiche. E, come ripete l’autorevole sociologo Raul Zibechi, pur critico di Maduro «se i tentativi di golpe non vengono fermati, salta tutto» e non ci sarà alcuna possibilità di «via negoziata» né di revisione critica dei gravi errori del «socialismo bolivariano» che rischia di sopravvivere ed offrire il fianco a nuovi, scellerati tentativi golpisti; né tantomeno ci sarà un nuovo, necessario, protagonismo popolare.