Dieci anni dopo la sua scomparsa o, come dicono in America latina, della sua «semina», il ricordo di Hugo Chávez è ancora molto vivo, non solo in Venezuela, dove oggi è previsto un fitto calendario di iniziative per rendergli omaggio, ma anche al di fuori del paese.

Amato come nessun altro – dai poveri e dagli emarginati, che lo hanno sentito come «uno di famiglia» -, odiato come nessun altro – dalle forze conservatrici locali e internazionali -, Chávez ha scritto una pagina radicalmente nuova della storia del suo paese, sconfiggendo, uno dopo l’altro, tutti i suoi avversari e finendo per arrendersi, all’età di 58 anni, solo al cancro (contro cui ha lottato per due anni e affrontando quattro interventi chirurgici).

ERA NATO A SABANETA, in Barinas, il 28 luglio del 1954, secondo di sei figli di una coppia di maestri rurali che, a causa delle ristrettezze economiche, avevano dovuto affidarlo alla nonna paterna. Entrato nelle forze armate, dove avrebbe raggiunto il grado di colonnello, aveva guidato nel 1992 la ribellione contro il corrotto presidente Carlos Andrés Pérez. Ma senza successo: arrestato e imprigionato, aveva riacquistato la libertà nel 1994 grazie a un’amnistia, uscendo dal carcere con le idee chiare e la volontà altrettanto chiara di trasformare il paese.
Così, vinte le elezioni presidenziali del 1998, si era proposto di riscattare il pensiero bolivariano, sostenere le fasce povere e rifondare lo Stato attraverso una nuova Costituzione, poi sottoposta a referendum e approvata con oltre il 70% dei voti.

IN APPENA DUE ANNI, gli investimenti in campo sociale sarebbero passati dal 29 al 37% della spesa pubblica, anche se le conquiste maggiori sarebbero venute dal 2003 con le celebri «missioni» sociali a favore delle fasce più povere, dall’educazione alla salute, dall’alimentazione alla politica abitativa. Compresa la Missione Musica, per garantire ai bambini e ai giovani più poveri l’accesso all’educazione musicale, anche come strumento di prevenzione della violenza.

Più volte le élite avrebbero provato a fermarlo: con il colpo di stato dell’11 aprile del 2002, abortito nel giro di 48 ore grazie alla fedeltà delle forze armate e alla massiccia mobilitazione popolare; con una lunga paralisi dell’industria petrolifera nazionale; con il referendum di revoca previsto dalla Costituzione. E anche, nel 2005, con il boicottaggio delle elezioni parlamentari, in maniera che passasse, in sede internazionale, l’idea di un deficit democratico nel paese.

Come un caudillo allergico alla democrazia, del resto, Chávez è stato sempre descritto dai media “ufficiali”, che ne hanno offerto spesso e volentieri una grottesca caricatura.

TUTTI TENTATIVI ANDATI A VUOTO. Coloro che erano invisibili, aveva commentato Eduardo Galeano, non erano «disposti a ritornare a Nadalandia, che è il paese in cui abitano los nadies», quelli che non contano niente.
In otto anni di vittorie, c’era stata tuttavia anche una sconfitta: quella al referendum del 2007 sul progetto di riforma costituzionale, che, accanto a misure come la riduzione dell’orario di lavoro da 48 a 36 ore settimanali, la soppressione dell’autonomia della Banca Centrale, la definizione di nuovi strumenti di partecipazione del popolo, prevedeva l’abrogazione del limite al numero di mandati presidenziali.

Ma Chávez avrebbe ottenuto ugualmente il suo obiettivo: al referendum del 15 febbraio del 2009, infatti, il 54% dei venezuelani avrebbe detto sì all’eliminazione dei limiti per la rielezione di presidente, deputati, governatori e sindaci, malgrado una parte della sinistra la considerasse in realtà un ostacolo alla creazione di una cultura autenticamente democratica.

ANCHE SU ALTRI VERSANTI non sono mancate le critiche. C’è chi ha puntato il dito contro il peso crescente di una struttura statale burocratica, corrotta e inefficiente; chi ha evidenziato come il suo progetto di costruzione del socialismo del XXI secolo sia rimasto essenzialmente a livello di intenzioni e il Venezuela sia restato a tutti gli effetti un paese capitalista; chi ha accusato Chávez di non aver neppure tentato di scalfire il modello estrattivista dilagante in tutta l’America latina. E più d’uno ha interpretato la crisi che sarebbe esplosa dopo la sua morte, al di là degli effetti di certo catastrofici dell’assedio sempre più soffocante da parte degli Stati uniti, come la logica conseguenza del mancato riconoscimento, già da parte sua, della necessità di superare la dipendenza dal petrolio, che, al contrario, era passato a costituire il 96% del valore totale delle esportazioni.

EPPURE, MALGRADO LIMITI ed errori, «la bella rivoluzione», come lui stesso l’avrebbe chiamata, c’è stata comunque. Basti pensare a un investimento nelle politiche sociali pari al 43,2% del bilancio statale, alla netta riduzione della percentuale di poveri (passata, tra il 2001 e il 2010, dal 48,6% al 27,8%), al fatto che il paese presentasse il miglior coefficiente Gini – l’indice che misura il tasso di disuguaglianza – dell’America latina e che, secondo l’istituto Gallup, risultasse al quinto posto, insieme alla Finlandia, nella classifica dei paesi considerati più felici dai propri abitanti.

E non meno importante è stato il ruolo che Chávez ha giocato nel processo di integrazione latinoamericana, offrendo un contributo decisivo alla sconfitta del più ambizioso progetto imperialista per la regione: l’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe, a cui egli aveva contrapposto il progetto alternativo dell’Alba (l’Alleanza bolivariana per le Americhe), da lui lanciata insieme a Fidel Castro come modello di integrazione destinato a mantenere vivo il sogno di Bolívar e Martí di un’America unita e solidale. Come pure fondamentale era stato il suo ruolo nella creazione della Celac, la Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici.

MA C’È STATO QUALCOSA di ancor più importante, finché Chávez è restato in vita: la conquista di una nuova consapevolezza da parte del popolo povero, la coscienza della sua insopprimibile dignità, favorita da una Costituzione diffusa in formato tascabile e usata come un’arma contro gli abusi di potere. Al contrario di quanto avviene in tutto il mondo, avrebbe detto del resto lo scrittore colombiano William Ospina, in Venezuela «i poveri celebrano e i ricchi protestano».