La preoccupazione sul futuro degli stabilimenti italiani di Stellantis ha travalicato i confini. Ieri perfino Le Figaro ha ospitato un articolo che dava voce alle denunce di Fiom e Fim Cisl dal titolo: «I sindacati italiani insorgono». Il giornale francese – patria di Psa, di cui il governo è socio – è molto netto: «Le fabbriche dell’ex Fiat funzionano a un terzo della loro capacità e la cassa integrazione è diventata così massiccia – doppia prima della pandemia – che la situazione sembra insostenibile agli occhi di tutti», «mentre Carlos Tavares ha incontrato solo una volta i sindacati italiani, questi chiedono un vero dibattito interno su piano industriale, ricerca e sviluppo, componenti e servizi».

Oggi alle 11,30 si terrà finalmente al Mise il vertice fra azienda, governo e sindacati a cui parteciperanno sia il ministro Giancarlo Giorgetti che Andrea Orlando, mentre per Stellantis ci sarà il responsabile europeo Davide Mele, giovane manager molto più collaborativo rispetto al suo predecessore Alfredo Altavilla, poi cacciato da Marchionne.

SE È QUASI SCONTATO L’ANNUNCIO della firma sull’investimento per la gigafactory di batterie a Termoli – con un investimento di circa due miliardi e mezzo a fronte di 369 milioni che sborserà il governo italiano – tutti gli altri problemi restano sul tavolo. E il «ministro fantasma» Giorgetti ha fatto ben poco per risolverli.

LA PRESENTAZIONE del primo marzo del piano industriale 2030 da parte di Tavares non ha fugato gran parte degli interrogativi sul futuro delle missioni produttive degli stabilimenti italiani e dei circa 50 mila dipendenti attuali del gruppo.

Alla vigilia dell’incontro al Mise la Fim Cisl ha presentato un dossier molto dettagliato a tinte fosche sulla situazione delle singole fabbriche. «Non basta annunciare 100 lanci di nuove auto entro il 2030 e gli obiettivi di triplicare i ricavi dei veicoli premium e luxury di Maserati, Alfa Romeo, Lancia e Ds – attaccano il segretario generale Roberto Benaglia e quello nazionale Ferdinando Uliano – è necessario comprendere quali sono le nuove produzioni per gli stabilimenti italiani, la loro tempistica».

Per quanto riguarda i grandi stabilimenti quello con le peggiori prospettive produttive è certamente Cassino. I 3.176 attuali dipendenti ciociari – erano 5 mila nel 2016 – attendono la messa in produzione della Maserati Grecale – slittata a giugno per il blocco globale dei semiconduttori – ma sanno benissimo che non basterà per la piena occupazione che le Alfa Romeo Giulia e Stelvio non hanno mai garantito.

NON MOLTO MEGLIO sta Pomigliano. I 4.439 dipendenti odierni a cui Marchionne nel 2011 portò la Panda in cambio alla rinuncia a pause e diritti attendono a marzo, sempre con un ritardo di mesi, l’avvio dell’Alfa Romeo Tonale, ma con la Panda fuori produzione nel 2023 i problemi torneranno gli stessi: cassa integrazione come da più di 15 anni a questa parte.

Melfi era stato lo stabilimento che più aveva guadagnato dalla fusione con Chrysler e la produzione di Jeep per gli Stati Uniti. Nel 2021 è invece quello che ha visto crollare maggiormente la produzione (-28,8% rispetto al 2020). Ora le prospettive sono già verso il lontano 2024 quando la nuova piattaforma Bev Stla Medium dovrebbe portare alla produzione di nuove vetture – ancora sconosciute – completamente elettriche. Nel frattempo per i 6.761 occupati c’è la certezza della cig per riorganizzazione.

TORINO È ORMAI PERIFERIA dell’impero franco-olandese e nonostante la chiusura di Grugliasco con spostamento dei lavoratori a Mirafiori e delle produzioni Maserati, la sola 500 elettrica non può bastare ai soli 3.619 operai rimasti nell’ex capitale dell’auto, per non parlare degli 8 mila degli Enti centrali e commerciali ex Fca.

Tacendo del possibile scippo di furgoni Ducato dalla Polonia alla Sevel di Atessa, non vanno dimenticati gli stabilimenti più piccoli e più malmessi: in testa la Vm di Cento (Ferrara) che produce motori diesel. Tavares ha annunciato motorizzazioni interamente elettriche in Europa entro il 2030: cosa ne sarà dei 778 lavoratori come dei 1.717 di Pratola Serra, per ora garantiti dalla produzione di diesel Euro 7?

«Oggi al Mise ci aspettiamo di conoscere quale sarà la traduzione del piano di Tavares sugli stabilimenti italiani e di aprire un confronto sulle missioni per tutti i siti – dichiarano Michele De Palma, segretario nazionale, e Simone Marinelli, coordinatore automotive della Fiom – . Sono necessari modelli che garantiscano la piena capacità installata con l’obiettivo di produrre più di un milione e mezzo di veicoli. Solo così si garantisce l’occupazione. Il governo ha stanziato 8,7 miliardi di euro fino al 2030: il settore si rilancia non solo con gli incentivi, ma soprattutto con una politica industriale e con strumenti di gestione della transizione. Per farlo è necessario avviare il confronto anche nella componentistica. Dopo l’iniziativa comune di Federmeccanica e Fim Fiom Uilm chiediamo un tavolo alla Presidenza del consiglio su tutto l’automotive», ribadiscono i due esponenti Fiom, chiamando in causa Draghi e dunque sfiduciando nuovamente Giorgetti.

Le parole molto simili di Fim e Fiom scontano però ancora una apartheid sindacale figlia delle lunghe divisioni dell’epoca Marchionne. Lunedì su Cnh–Iveco – la parte di Fca che produce macchine movimento terra – la Fiom è stata nuovamente esclusa dal tavolo sul nuovo «premio di risultato». «Io caldeggio da tempo il rientro della Fiom negli accordi sindacali – spiega Ferdinando Uliano – ma lo deve fare a tutto tondo, non dalla finestra».