«L’Afghanistan sta cominciando a essere un buon posto per le donne…Non è più un luogo per cui dici ‘che sfortuna che ha avuto: questa ragazza è nata in Afghanistan’». Rula Ghani, moglie del presidente Ashraf Ghani, si è espressa così il 15 marzo in un’intervista alla Fox News. Quattro giorni dopo, una donna di 27 anni è stata linciata in pieno giorno a Kabul.
Sono le prime ore del pomeriggio di giovedì 19 marzo. Mohammad Nader Malikzadah prova a chiamare sua figlia, Farkhunda. Il telefono squilla a vuoto, più volte. Un paio di ore prima il padre si è sentito dire: «Non preoccuparti, tarderò un po’, qui al santuario c’è molta gente». Siamo all’interno del piccolo santuario che fronteggia la moschea Shah-e-Doh Shamshira (del Re delle due spade), costruita con stile eclettico negli anni venti del Novecento sulle sponde del fiume Kabul. È proprio qui, lungo l’ideale confine che sancisce il limite della grande area del bazar, in uno dei luoghi più frequentati della capitale, che Farkhunda è stata massacrata di botte, come testimoniano i resoconti giornalistici e alcuni video.

Il linciaggio

In uno di questi si nota Farkhunda che discute con alcuni uomini, sempre più insistenti e minacciosi. Ripete di non aver bruciato il Corano. Viene condotta nella parte esterna del santuario. Cominciano a picchiarla. La folla si infittisce. Solo maschi, perlopiù ragazzi. La colpiscono con calci e pugni, bastoni, le scagliano addosso sassi e macigni. La insultano. Farkhunda è a terra. Qualcuno le salta sulla schiena a piè pari. Altri urlano «Allah Akbar» e «Zendabad Islam» (lunga vita all’Islam). Poi, il corpo già straziato viene trascinato per strada. Infine bruciato e gettato sulla sponda del fiume. Il linciaggio dura mezz’ora (secondo i risultati annunciati ieri dalla Commissione d’inchiesta). Assistono in tanti, un centinaio di persone, forse più. Nessuno interviene. Neanche i poliziotti richiamati dalle urla della folla. Quasi tutti i presenti scattano foto, registrano video con i telefoni. Materiali che di lì a poco sarebbero finiti in rete. Su Facebook e su Twitter. Elementi fondamentali nel ricostruire l’accaduto e individuare alcuni colpevoli.

Un vanto maschile

Su Facebook infatti c’è chi, come Sharaf Baghlani, impiegato al ministero dell’Educazione, si vanta di aver partecipato attivamente al linciaggio. Verrà arrestato. Hashmat Stanikzai, il portavoce della polizia di Kabul, scrive che Farkhunda «come molti altri miscredenti, pensava che questo tipo di azione e di insulto le avrebbe garantito la cittadinanza negli Stati Uniti o in Europa. Prima che ci riuscisse, è stata uccisa». Verrà licenziato. In rete, molti uomini dicono che la sua morte «deve essere d’insegnamento alle altre puttane». A giustificare il linciaggio sono anche alcune donne. Tra queste, Simin Ghazal Hassanzada, viceministro per l’Informazione e la cultura (congedata solo ieri). I religiosi non perdono l’occasione per alzare i toni: nella preghiera del venerdì, dal pulpito della moschea di Wazir Akbar Khan il mullah Mohammad Ayaz Niazi si esibisce in un sermone infuocato: «Suggerisco al governo di non arrestare i responsabili, perché provocherebbe una rivolta». Poi è costretto a ritrattare: «c’è una cospirazione contro di me degli americani e degli israeliani». Ma in tanti lo sostengono. Bisogna difendere l’Islam.

Da viva, hanno notato alcuni commentatori, Farkhunda non sarebbe diventata un’icona della società civile, un simbolo della battaglia delle donne afghane contro la violenza patriarcale e per l’emancipazione. Studiava – così hanno spiegato i familiari – ma soprattutto voleva diventare una buona moglie e una buona madre. «Era una ragazza molto devota», ha sottolineato il padre. Dopo aver abbandonato la facoltà di matematica all’università di Kabul, si era diplomata in una madrasa (una scuola religiosa) e aspettava di seguire le prime lezioni di teologia, alla facoltà di Diritto islamico. Nel frattempo, sembra che insegnasse ai bambini a leggere e recitare il Corano. Secondo qualcuno, proprio nel santuario dove avrebbe trovato i suoi carnefici.

Quale Islam?

Giovedì 19 marzo Farkhunda contesta al mullah e ai custodi del santuario la pratica di vendere amuleti-portafortuna (taweez), piccoli oggetti da portare con sé, come rimedio a sfortuna, malattie, infertilità e disagi psichici. Molto diffusi in Afghanistan, sono considerati una forma di superstizione dai fedeli più ortodossi. Farkhunda è tra questi. I custodi del santuario si sentono minacciati, messi alle strette da una donna – una donna – che rivendica un’interpretazione più ortodossa dell’Islam. Reagiscono girandole contro la sua stessa accusa. E inventando la colpa più atroce: ha bruciato il Corano. Non c’è più scampo.
«Quel che hanno fatto a mia figlia è un insulto all’Islam, alla gente di Kapisa (la provincia di origine della famiglia, ndr) e a tutti i mujahedin afghani. Diceva spesso di voler essere una martire dell’Islam, ma non intendeva questo», afferma il padre poco prima del funerale di domenica 22 marzo.

Il funerale delle donne

Il rito religioso diventa l’occasione per riscattare l’immagine di Farkhunda. Si presenta il generale Mohammad Zahir, a capo del Dipartimento investigativo del ministero degli Interni. Ripete che Farkhunda «è completamente innocente», «non ci sono prove che abbia bruciato il Corano», la polizia «andrà fino in fondo» (una quarantina i fermati finora, tra cui 18 poliziotti), «non ci sono giustificazioni». Si presenta anche il mullah Niazi, per scusarsi. Viene allontanato da un gruppo di donne. Le stesse che – contravvenendo alla tradizione – decidono di portare il feretro di Farkhunda sulle proprie spalle, fino al cimitero di Pansad. Urlano «Maa hama Farkhunda yem» («Siamo tutte Farkhunda»), «Maa edalat mikhohim!» («Vogliamo giustizia»). Ritornelli che dal giorno del brutale omicidio di Farkhunda riecheggiano spesso, in Afghanistan e non solo. Di fronte alla Corte suprema di Kabul si è tenuta un’importante manifestazione della società civile; gli studenti universitari hanno organizzato diverse veglie. Dimostrazioni si sono svolte anche nelle province afghane di Herat, Balkh, Parwan, Kunduz, oltre che a Londra, New York, Sydney, Dacca, Islamabad.

Mullah versus società civile

Dovunque, gli stessi messaggi: «giustizia per Farkhunda» e «l’Islam religione di pace». È vero, l’Islam è una religione di pace. Ma in Afghanistan – ha ricordato la giornalista afghana Nushin Arbabzadahmarch sul sito di Foreign Policy – «una corrente radicale dell’Islam è stata normalizzata, ed è ora accettata da un ampio pubblico». I religiosi – mullah, imam, ulema – hanno forti responsabilità. E «troppo potere», aggiungono in molti. «Nel paese c’è tanto nervosismo», ci dice da Kabul Mir Ahmad Joyenda, volto noto della società civile, già parlamentare. I religiosi non ci stanno a farsi mettere nell’angolo. Hanno organizzato una manifestazione proprio di fronte alla moschea Shah-e-Doh Shamshira e al santuario (fatto chiudere nei giorni scorsi dal ministro per gli Affari religiosi). Erano circa un migliaio. Hanno pregato per Farkhunda. Ma hanno criticato la società civile e i media per i loro attacchi «strumentali» al clero e all’Islam. Qualcuno si è spinto oltre: «prima o poi la bandiera dell’Islam sventolerà sulla Casa bianca». Intanto alcune parlamentari donne fanno sapere di aver ricevuto minacce dai religiosi: «Basta con questa storia di Farkhunda».

La cultura dell’impunità

«La morte di Farkhunda è eccezionale solo perché è un esempio eccezionalmente visibile della violenza che troppo spesso continuano a subire le donne afghane», ha commentato Heather Barr, ricercatrice di Human Rights Watch, che ha chiesto al presidente Ghani di dare seguito agli impegni assunti in campagna elettorale. L’approvazione nel 2009 della Legge per l’eliminazione della violenza contro le donne continua a essere applicata poco (nel 17% dei casi registrati) e male. Le istituzioni latitano. Per l’analista politica afghana Helena Malikyar, editorialista di Al Jazeera, il linciaggio di Farkhunda rimanda invece a una più generale patologia della società afghana, una società composta di «sopravvissuti», o di ragazzi nati e cresciuti dentro la logica della guerra, nella cultura dell’impunità, in un paese in cui «le linee tra comportamenti morali e immorali, tra atti legali e illegali» è del tutto sfumata. Parole simili a quelle del presidente Ashraf Ghani, che in un discorso allo United States Institute of Peace di Washington ha parlato della morte di Farkhunda come di un atto «atroce». Un omicidio che riguarda una donna inerme, ma che parla anche di un «un trauma collettivo». Quello di un popolo che subisce la guerra da quasi quarant’anni. «Giustizia per Farkhunda», gridano uomini e donne di Kabul. E «pace per l’Afghanistan».