Maruja Inquila Succasaca ha 47 anni, è una contadina e allevatrice di origine quechua e coltiva principalmente quinoa, fave e patate nel distretto di Coata, provincia di Puno, dove è nata. Con il suo lavoro tiene in piedi tutta la famiglia.

In questi giorni a Lima, Maruja si è convertita in una portavoce della protesta, per le sue capacità dialettiche e perché ha ben chiaro quali sono i diritti di chi manifesta e cosa significa vederseli negare. È stata testimone di uno dei momenti di maggior repressione della comunità quechua e aymara a Lima, avvenuto quando le forze di sicurezza hanno fatto irruzione nell’università pubblica San Marcos in cui erano accampati studenti e manifestanti. Sono entrati con blindati e lacrimogeni, obbligando gli occupanti a sdraiarsi faccia a terra in un clima di terrore e umiliazione ripreso da video subito divenuti virali.

«Appena arrivata in città sono andata alla San Marcos per cercare un posto per la notte, ma era tutto pieno, quindi ho lasciato lì il mio bagaglio e sono andata a dormire alla facoltà distaccata di ingegneria. Il giorno dopo sono tornata per recuperare le mie cose, ma la polizia era già entrata e, quando mi sono avvicinata, sono stata spinta a terra e picchiata con una mazza. Ho lividi su tutto il corpo. I militari non smettevano di chiamarci terroristi e ignoranti».

Più che il dolore fisico, le comunità aymara e quechua lamentano la violenza verbale, le calunnie e il disprezzo espressi dalle forze dell’ordine, che fanno eco a decadi di toni discriminatori con cui spesso le autorità si sono rivolte ai popoli indigeni.
«Un militare mi ha minacciata di morte, dicendomi di tornare a casa mia, come se non avessi il diritto di stare a Lima – spiega Maruja con la durezza di chi si è stufata di essere considerata un essere umano di serie B -. Ci chiamano terroristi o dicono che siamo finanziati dai narcos, ma è falso. Viviamo con i soldi che ci mandano i nostri familiari. Qua gli unici terroristi sono i poliziotti che ci trattano come animali».

L’abuso della forza da parte dei militari è stato giustificato dal primo ministro Alberto Otárola che, insieme alla presidente Boluarte, ha duramente criticato le proteste sostenendo che i manifestanti sono finanziati da cellule di narcotraffico e organizzazioni estrattive illegali. Sprezzo per i popoli indigeni si ritrova anche nelle parole di alcuni deputati di destra che in parlamento si sono riferiti alla bandiera Whipala come a «una tovaglia del ristorante cinese».

«Il problema del razzismo è forte – continua Marruja -. Siamo venuti qui in cerca di un dialogo, ma, se continuano a spararci e a chiamarci “indios”, “terroristi” e “barboni” questo non sarà possibile. La polizia ci perseguita anche quando dormiamo o mangiamo, ma noi non ci stancheremo di lottare. Siamo stati dimenticati per troppi anni e questo non ha fatto che renderci più forti. A volte la mia famiglia pensa che morirò qui, ma se dovesse succedere non importa, perché stiamo lottando per un Perù dove finalmente ci saremo anche noi»