«Mi vergogno di tutto ciò» dice Katalin Sommer, ebrea ungherese scampata ai rastrellamenti delle truppe naziste e collaborazioniste a Budapest 80 anni fa. In alto, sulle colline di Buda, va in scena uno spettacolo assurdo. Elmetti svasati, aquile del Terzo Reich, uniformi e memorabilia infilati nei cinturoni. Dovunque scudetti con il tricolore ungherese e poi teschi, croci di stoffa e di ferro, granate persino. Tutto rigorosamente d’epoca. Di quell’epoca in cui a Budapest si fucilavano ebrei e rom sul Danubio a decine. Sono i partecipanti alla marcia «Evasione 60» che commemora la sortita delle SS tedesche e delle Croci frecciate ungheresi nel 1945 dall’assedio della capitale ungherese da parte dell’Armata rossa diretta al cuore del potere nazista, a Berlino.

«AGLI UNGHERESI piace dimenticare» continua Katalin, 85 anni, una vita da truccatrice nel cinema e attivista instancabile. «Far finta che non sia mai successo niente e invece noi lo sappiamo bene. Nel 1944 ci portarono in una ‘casa protetta’ grazie a una lettera dell’ambasciata svizzera, ma non durò molto. Le croci frecciate vennero a prenderci una mattina e ci portarono su una delle banchine del fiume, come quella». Indica poco più in là, sull’argine di pietra un artista ha realizzato delle sculture di bronzo con decine di paia di scarpe abbandonate. Qualcuno vi deposita fiori e i passanti scattano foto. «La prima fila fu fucilata e stava per toccare a noi che eravamo più in fondo, ma per fortuna qualcuno era riuscito a chiamare Wallenberg, l’ambasciatore svedese, che accorse e interruppe le esecuzioni. Ci portarono nel ghetto e ci chiusero dentro fino al 18 gennaio del 1945, quando riuscimmo a liberarci».

Intanto le maglie dell’assedio sovietico si stringevano intorno al castello di Buda e come ultimo gesto disperato, con le vie di rifornimento interrotte da molto tempo, il comandante delle SS Karl Pfeffer-Wildenbruch diede l’ordine di effettuare una sortita. Migliaia di soldati nazisti e di collaborazionisti morirono e i pochi che si salvarono (si stima circa 600) continuarono verso i monti e raggiunsero il villaggio di Szomor, sede della Wermacht.

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Per questo dal 1997 l’estrema destra ungherese ha deciso di celebrare quella fuga ripercorrendo lo stesso percorso. Ed è verso Szomor, dopo ore di cammino attraverso i boschi, che erano diretti le centinaia di neonazisti in costume da tutta Europa partiti dal belvedere di Buda. In molti avevano i simboli più espliciti, come le due S dei reparti tedeschi o le svastiche, coperte da nastro o da altri adesivi, dev’essere stata data un’indicazione preliminare. Eppure un po’ di nastro carta non nasconde e, se mai servisse una prova dell’appartenenza politica di queste persone, basterebbe un’occhiata distratta. Ciononostante gli organizzatori l’hanno definito «un evento sportivo e culturale» per evitare di incorrere in un’eventuale censura governativa in quanto «manifestazione estremista».

L’ASSURDO, PERCHÉ SAREBBE difficile definirlo altrimenti, è che tra un soldato con i coltelli della Seconda guerra mondiale e il taglio di capelli da gioventù hitleriana e l’altro c’erano persone in tenuta da trekking. Colori sgargianti, scarponcini di marca e fasce nei capelli. Molti in coppia, alcuni addirittura con i figli. Controllavano gli orologi per verificare le distanze e i tempi di percorrenza, si assicuravano del percorso e attendevano di buon umore che aprissero le registrazioni ai banchetti dove si indica il proprio nome, ti viene consegnata una brossure con un po’ di storia, i punti d’interesse con i «famosi check-point», ovvero riproduzioni di tende delle SS tra i boschi e figuranti che interpretano la parte del glorioso nazista in fuga da Budapest nel ’45. Anche tra i neonazisti c’è chi prova a saltare la fila ma viene subito ripreso bonariamente dagli organizzatori.

I CAMERATI SI SALUTANO prendendosi l’avambraccio, qua e là qualche bandiera dei gruppi locali o della rete internazionale Blood and honour. Si sente molto spesso parlare in tedesco. Ai lati gli agenti di polizia controllano… cosa controllano è difficile dirlo, comunque non fanno passare nessuno per le vie laterali. Di sicuro vogliono impedire che il corteo degli antifascisti e questa fila di nostalgici in costume non si incontrino. Già perché dalle 14 a piazza Mosca, in ungherese Széll Kálmán, si è riunito un gruppo di antifascisti ungheresi con qualche straniero giunto per l’occasione, soprattutto tedeschi e austriaci. Quando i manifestanti decidono di essere abbastanza si compattano, si coprono con gli striscioni sia di fronte sia ai lati del corteo e partono.

La polizia in assetto antisommossa e decine di mezzi controllano anche qui, ma non come a Buda, da vicino, attenti al fatto che nessuno muova un passo senza autorizzazione. «Siamo tutti antifascisti» cantano, in italiano, i manifestanti inviando una chiara dedica a Ilaria Salis, che un anno fa venne arrestata proprio in questo giorno. «Ai compagni ingiustamente arrestati diciamo: non siete soli!» urla il megafono. Eppure qui ci sono al massimo 500 manifestanti con il volto coperto da mascherine sanitarie per paura di ripercussioni. A duecento metri, nella storica Buda, i neonazisti sfilano allegri e si scambiano battute.

I due cortei non si toccano, la strategia del governo fino al momento in cui questo pezzo è andato in stampa ha funzionato: sono solo nazisti che partono per una scampagnata, non fanno nulla di male. Anzi, i cattivi sono gli altri. Gli altri che ricordano l’olocausto mentre i gruppi musicali di estrema destra inneggiano allo stupro delle donne ebree. Gli altri che chiedono la libertà di poter essere omosessuali mentre in Ungheria le aggressioni alla comunità Lgbtq sono all’ordine del giorno. Gli altri che aiutano i migranti siriani dalla Serbia mentre milizie informali gli danno la caccia per massacrarli di botte. E con le prime luci del sole oggi alcuni sono già arrivati a Szomor dove il cuore nero d’Europa si mette in maschera e assume toni rassicuranti.