Joao Pedro era un menino di 14 anni e viveva nel Complexo do Salgueiro, una favela nell’area metropolitana di Rio de Janeiro. Si trovava nel giardino di casa quando è stato ferito gravemente dai colpi sparati dalla polizia nel corso di un intervento nel quartiere.

Portato via dall’elicottero impiegato nell’azione, senza che nessuno potesse accompagnarlo, per 15 ore si perdono le tracce del ragazzo: nessuna informazione sulle sue condizioni e sulla destinazione.

Solo il giorno successivo, dopo ripetuti appelli della famiglia e di numerose associazioni, uno scarno comunicato della polizia precisava che il corpo del ragazzo si trovava presso l’Istituto di medicina legale e che le armi erano state usate per «legittima difesa».

Ora l’avvocato della famiglia chiede con insistenza: «Quando è morto il ragazzo? Perché gli agenti di polizia lo hanno trattenuto così a lungo?». Gullherme Boulos, che dirige il Movimento dei lavoratori senza tetto, dichiara che «il ragazzo è vittima della politica genocida contro poveri e neri e, in un periodo di pandemia in cui si difende la vita, la polizia e il governo sono agenti di morte nelle favelas».

Altri due giovani neri, Rodrigo (19 anni) e Joao Vitor (18 anni), sono stati uccisi nel corso di azioni condotte dalla polizia la scorsa settimana a Rio. Sono 24 gli adolescenti che nei primi mesi di quest’anno hanno trovato la morte nei quartieri di Rio durante lo svolgimento di operazioni di polizia e ogni azione violenza degli agenti è stata giustificata come conseguenza di un «atto di resistenza» nei loro confronti.

Lo strumento giuridico dell’atto di resistenza, introdotto durante la dittatura per giustificare la repressione degli oppositori, consente una impunità generalizzata. Una ricerca condotta qualche anno fa dalle Associazioni dei diritti umani, con l’analisi di 12mila autos de resistencia registrati nell’area metropolitana di Rio, ha dimostrato che nel 60% dei casi si è trattato di vere e proprie esecuzioni, con le vittime disarmate o in una situazione di difesa.

Questa «licenza d’uccidere» è alla base del genocidio della gioventù nera e povera del Brasile. Nel 2019, nello Stato di Rio, sono state 1.810 le persone uccise dalla polizia, un terzo del totale degli omicidi, una media di cinque al giorno. E nel 75% dei casi si è trattato di giovani neri tra i 15 e i 29 anni.

Dopo ogni intervento della polizia, che nella metà dei casi si conclude in modo letale, gli agenti non vengono identificati e processati, si ridimensiona la gravità dei fatti e si colpevolizzano le vittime. Ed è quello che è accaduto nel dicembre del 2019 a Paraisopolis, la più estesa favela di San Paolo.

Il brutale intervento della polizia durante una festa di strada per una operazione antidroga si è trasformata, tra spari e inseguimenti, in una strage con la morte di nove ragazzi neri tra i 14 e i 23 anni. I dati dimostrano che non si tratta di incidenti o casi isolati, ma di una violenza istituzionale che viene esercita soprattutto nei quartieri dove il disagio sociale è più acuto.

Una logica genocida che va avanti da decenni nei confronti della popolazione nera e che ora viene anche incoraggiata e giustificata dal governo. Secondo il Forum brasiliano di sicurezza pubblica, ogni anno in Brasile 25-30mila i giovani tra i 15 e i 29 anni vengono uccisi, un terzo durante operazioni di polizia. E per il 75% si tratta di giovani neri.

Nel 2016, sotto la presidenza Dilma, una Commissione parlamentare d’inchiesta, dopo un lungo lavoro di ricerca e analisi degli atti di violenza sulla popolazione nera, attraverso udienze pubbliche e il consulto di specialisti, era arrivata alle seguenti conclusioni: «Riteniamo che l’espressione ‘Genocidio della popolazione nera’ è quella che meglio descrive l’attuale realtà in relazione agli assassini dei giovani neri. Il Brasile non può convivere con una situazione tanto perversa e ignominiosa in cui una parte della popolazione viene decimata. Bisogna ripensare all’azione dello Stato e al ruolo che svolgono gli apparati di polizia e giuridico. Non possiamo consentire che per alcuni il reato porti a un giusto processo e per altri all’esecuzione sommaria. La responsabilità per le azioni violente degli organi di polizia deve essere appurata in tutte le sue dimensioni e riconosciuta come grave violazione dei diritti umani».

L’anno dopo Dilma veniva destituita e il nuovo ministro della giustizia del governo Temer dichiarava che «il Brasile non ha bisogno di ricerche e studi, ma di armi e munizioni per trattare la sicurezza». L’avvento di Bolsonaro e le sue scelte hanno aggravato la situazione.

Lo smantellamento delle politiche sociali sta producendo un ulteriore aumento dei fenomeni di emarginazione, mentre si consente una maggiore flessibilità nell’uso delle armi da fuoco. E saranno i giovani neri a pagare il prezzo più alto.